Willy intervista Matteo Lolli -la passione per il teatro greco

willy e diana di filippo novelliDevo dire che quando mi è stato presentato il giovane promettente regista Matteo Lolli, non avrei mai immaginato di intervistare un appassionato del teatro greco. Quello classico per intenderci.

Willy: Bene Matteo, parlaci un po’ di te.

Matteo. Caro Willy, intanto si nasce ed “è funesto a chi nasce il dì natale”, perché ancora non si immagina la sequela di fatiche e guasti cui si andrà incontro, sempre ammesso che vada bene all’inizio. Ci salva e ci spinge avanti la nostra cieca e infaticabile volontà di vivere e una serie di geroglifici e segni misteriosi che incontriamo lungo il nostro cammino (quasi mai in carne e ossa) e che ci fanno sentire, nonostante tutto, la bellezza struggente di questo attraversamento. Sono nato mortalmente solo e quindi fin da subito alla ricerca di altre solitudini per alleviare la mia.

Come la luce ci ferisce gli occhi la prima volta che si esce dal ventre e poi cominciamo a guardarci intorno, così comincia la nostra formazione/deformazione progressiva: e quindi la famiglia, nido e inferno, seguita dalla scolarizzazione dell’obbligo che fabbrica e cementifica l’ipocrisia civile del “buon cittadino”, l’arte del buon viso e cattivo gioco. Scuola materna, elementari, medie, liceo artistico e poi, arriva il teatro, improvvisamente, tra capo e collo, a Genzano, nel paese vicino Roma in cui vivo.

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Per fuggire alle mie miserie volevo fare l’attore e invece mi sono accorto che a teatro-  con le mie miserie-  dovevo farci i conti e che non c’era scampo. Poi, invece di fare l’Accademia d’arte drammatica decisi per il corso di recitazione del Centro Sperimentale di cinematografia. E via con provini a destra e manca tra una produzione cinematografica e una televisiva. Ne uscii più dubbioso, amareggiato e disilluso di prima.

Alla scuola di cinema nemmeno l’ombra di un maestro e io totalmente inadeguato alla “società dello spettacolo” d’impiegatucci provinanti e provinati. Finii cacciato dall’istituzione scolastica. Il buon Lino Miccichè, allora direttore della Scuola, tra l’indignato e il dispiaciuto per il mio disinteresse ed indisciplina, pur essendo io oggettivamente favorito dall’aver ottenuto la borsa di studio,  concludeva apodittico in una raccomandata con ricevuta di ritorno senza possibilità di appello “Per questo Ella non è ammesso a ripetere l’anno, ma escluso definitivamente dai corsi, ai sensi del comma 7°, art. 6, del vigente Regolamento Didattico. Distinti saluti.”

Vergogna e disonore. Per campare mi cercai un lavoro onesto alle dipendenze di disonesti e compresi che era tempo di lasciar stare le frottole e di fare teatralmente da solo, con i pochi altri di buona volontà.

 W: Chi o cosa ti ha spinto ad intraprendere una carriera così faticosa come quella del regista?

M.:La nudità abissale del cuore invoca una maschera alla luce del sole, perché un cane affamato, sull’asfalto, non se lo mangi palpitante. Sono “regista” per proteggere quella nudità e darle voce. Anzi, non mi sento tanto regista quanto artefice, nella misura in cui spreco la mia esistenza/esperienza in tutti gli aspetti concretissimi e materici del fare teatro insieme ad altri esseri umani. Ogni volta che nella vita sei costretto a scendere nell’abisso di te stesso, quando riemergi, viene rimessa in discussione tutta la corazza che avevi dovuto costruirti la volta precedente. Non ci sono più scuse o appigli. Devi solo agire. Il teatro molte volte per me è stato, nei suoi processi creativi, una riemersione sofferta e gioiosa allo stesso tempo, catarsi dalla notte disperata del dolore inconsolabile. Dioniso bambino cornuto che con i suoi giocattoli si guarda nello specchio mentre viene fatto a pezzi e divorato dai titani. Un solo pezzo del corpo si salva dal massacro, forse il cuore, e da quello il fanciullo massacrato rinascerà, archetipo di vita indistruttibile.

W:  Il tuo primo lavoro da regista che sensazioni ti ha lasciato, oltre alla voglia di continuare?

M.:La mia prima regia teatrale, il “Faust Marlowe burlesque” di Aldo Trionfo e Lorenzo Salveti, risale al 2002/2003. In seguito all”incontro con Alessandro Lori, con cui continuo a collaborare artisticamente, leggemmo questa reinvenzione meravigliosamente ludica attraverso la follia di un continuo pastiche musicale e letterario, del Faust di Marlowe. Testo che divenne pretesto, in primo luogo, per trasformare senza snaturarlo uno spazio che teatrale non era (una cantina) in teatro vero e proprio, e, in secondo luogo, per un lavoro d’immersione totale nello spirito fanciullo di Dado Trionfo, tanto che, a furia di lavorarci cominciammo a giocare noi stessi inventando un’altra scrittura di scena e ci smarrimmo nel gioco. La cantina si riempì di pubblico e restammo in scena per un lungo periodo di tempo. Portammo giornalisti e venne uno dei due autori, Lorenzo Salveti, che apprezzò molto e ci consentì di trovare una produzione vera e di far vivere il nostro Faust nei cartelloni di due teatri romani. Ho un bel ricordo di quel periodo perché riuscimmo ad avere una completa dedizione al nostro processo creativo, dalla mattina alla sera, come dopo solo raramente è stato possibile con la stessa intensità. Tanto fu intenso questo certosino lavorio quanto amaro l’impatto con la triste realtà dei teatri romani che produsse in noi una specie di scoramento, e ancora una volta, fui deluso.

W: Ora passiamo alla tua scelta che mi ha veramente incuriosito: ovviamente già conoscevi gli autori greci del V secolo a.C. mi riferisco a Eschilo, Sofocle ed Euripide. Nella tua carriera hai lavorato su progetti attuali con un buon successo. Cosa ti ha spinto a tornare sui tuoi passi e riprendere il filone antico?

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M.:Ogni volta che s’inciampa nel teatro comincia un’opera di sottrazione in cui tutto ciò che è politica, storia, tempo storico, svago serale, psicologia, devono lasciare il posto a qualcosa di più. Tutta questa spazzatura, tutto questo letame vengono eliminati e solo a questo punto si arriverà vicini alle facoltà specifiche del teatro che, forse, hanno a che vedere solo col mito. E qui si arriva ai greci, per certi aspetti in realtà molto più vicini di quanto si creda. Attraverso la tragedia per esempio il potere della parola e il potere del teatro sono messi a confronto col potere delle forze oscure che dominano l’esistenza. Che fa il personaggio? Che fa la parola più acuta e più creativa? Che cosa fa il gesto più intenso? Toglie la maschera al teatro di vera finzione e attraverso una continua crisi gli restituisce  il volto della verità. Questa verità è in primo luogo il senso dell’ambiguità della vita e delle sue complessità che, per quanto dolorose, bisogna sposare fino in fondo se si vuole continuare a vivere e a fare teatro.

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Il “Bagno di Diana”, l’ultimo nostro spettacolo, è nato dal punto di vista per così dire drammaturgico, dal testo di un autore tardo antico vissuto a cavallo tra V° e VI° secolo d.C.: le Dionisiache di Nonno di Panopoli, lunghissimo poema epico diviso in 48 canti. In uno di questi canti è raccontata la storia mitica di Diana e Atteone. In seguito il testo si è arricchito di altre fonti quali le laminette orfiche, il Messaggero dell’Ifigenia in Aulide e il Coro delle Baccanti di Euripide. Attraverso questi testi abbiamo inventato un percorso che procede dalla discesa nell’abisso della tracotanza (Atteone) alla risalita gioiosa verso la luce dell’amore incondizionato come sacrificio completo di sé, del sé inteso come involucro mortale dell’io. Abbiamo messo una accanto all’altra due divinità originarie ancestrali come Artemide/ Diana, Signora degli animali e delle selve, e Dioniso/Bacco, Signore della vita indistruttibile. Molto importante è stato l’incontro artistico e la collaborazione con il gruppo musicale dei LUDI SCAENICI fondato da Cristina Majnero e Roberto Stanco, che da anni compiono studi e ricerche intorno alla musica e alla danza nell’antica Roma e in Grecia, avvalendosi della ricostruzione di strumenti musicali antichi ancora oggi presenti in vari musei e formulando ipotesi a partire dai suoni che si possono nuovamente ascoltare. A proposito della musica scritta l’antichità non ci ha lasciato molto se non 63 frammenti circa di epoca greco-romana, in parte su papiri, in parte scolpiti su pietra, di cui nello spettacolo abbiamo utilizzato diversi brani anche cantati in greco antico, tra cui l’Epitaffio di Seikilos, l’Inno a Nemesis e l’Inno delfico ad Apollo. Lo spettacolo ha debuttato nell’estate del 2016 al Teatro di paglia al lago di Nemi, proprio a due passi dal tempio di Diana Nemorense, ripreso nello stesso teatro l’estate scorsa con replica nei giardini pubblici del paese di Nemi. In fine, ad Agosto, siamo approdati al Parco archeologico di Elea-Velia per la XX edizione della rassegna estiva sull’espressione tragica e comica del teatro antico.

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W: Cosa consiglieresti a  giovani registi che voglio intraprendere la tua stessa scelta?

M.:-Il nome della compagnia creata da me e Alessandro Lori dal 2003 è POTEVANO ESSERE ROSE, che nel nostro primo lavoro, il “Faust Marlowe burlesque”, era una battuta amara che Mefistofele rivolgeva a Faust dopo aver ricevuto uno sputo in faccia. Ogni cosa prende le mosse dall’atroce disincanto, dalla ferita originaria. “Dobbiamo perdere … la vittoria è degli sconfitti, dobbiamo perdere … il canto dei perdenti è straordinario, è la cosa che noi facciamo continuamente: cantare i perdenti. I vincitori sono i veri sconfitti” sono le parole che amo ripetermi del poeta e teatrante palermitano Franco Scaldati. Da lì prendano le mosse i nuovi autori e registi. S’interroghino sull’assenza, sulla piaga e sulla mancanza, piuttosto che sulle facili consolazioni. E sopra ogni altra cosa, facciano fino in fondo l’esperienza di Narciso. Non si fermino alla propria immagine riflessa ma precipitino nel proprio abissale riflesso e cerchino di risalire. Tutto il resto è cazzeggio.

Bene, ti ringrazio caro Matteo, ci  vediamo presto a teatro!

Grazie a te Willy a presto!

Un saluto da parte di Willy il Bradipo.

[Dario Santarsiero per DETTI E FUMETTI – Sezione Teatro- articolo del 24 settembre 2017]

 

 

 

 

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