
Per la rubrica LE PAROLE AL POTERE continuiamo il nostro discorso sulla Destra e la Sinistra.
Questo posizionamento, che è al tempo stesso uguaglianza (tra “noi”) e disuguaglianza (da “loro”), viene sempre rispecchiato e ricercato dalla comunicazione politica. I politici, in particolare, fanno molta attenzione a scegliere le parole giuste per identificarsi e rappresentarsi agli occhi dell’elettorato. Lo ha messo ben in evidenza George Lakoff con il suo ampio studio sul potere del linguaggio.

A suo avviso, esistono schemi (frame) che strutturano a lungo termine il modo in cui pensiamo. Nelle sue parole:
“Possono venirci presentati dei fatti, ma perché noi li possiamo interpretare devono concordare con quello che già esiste nelle sinapsi del nostro cervello. Altrimenti non li vediamo, o non li accettiamo come fatti, oppure ci confondono. A quel punto etichettiamo il fatto come irrazionale, folle o stupido, a meno che non abbiamo già un frame che dia a questi fatti un senso”.
Significa che anche la verità, se discorde con quanto è già stipato nel nostro cervello, non viene accolta o appare insensata. Se ogni parola evoca un frame – una serie di conoscenze, emozioni e immagini che servono a dare un senso a quanto ci viene detto- allora va da sé che la politica deve fare estrema attenzione quando indirizza messaggi ai cittadini e ai media. Ad esempio, i conservatori americani non usano mai l’espressione “matrimonio gay”, neanche per attaccarlo perché in questo modo rischierebbero implicitamente di legittimarlo.
Per Lakoff, infatti, non si deve mai utilizzare il linguaggio dell’avversario, neanche per contraddirlo. Così repubblicani e democratici, conservatori e progressisti, liberali e socialisti dovrebbero stare attenti, utilizzare sempre un linguaggio specifico, che delimiti la propria identità entro confini ben definiti e non legittimi le posizioni altrui.
Si intende come il discorso si colleghi a quello cognitivo sulla produzione di significato. Anche in questo caso, è il solito Lakoff a venirci incontro col suo studio sulle metafore.
Il collegamento cognitivo che esiste tra discorso e politica deriva dal fatto che gli esseri umani hanno una capacità meta-rappresentativa, ovvero riescono a produrre rappresentazioni distaccate, al di fuori di una situazione fisica dove uno stimolo può avere luogo. (Si tratta della capacità di immaginazione, come quella di un bambino che dà forma nella propria mente ai personaggi della sua storia preferita).
Il linguaggio entra in gioco perché è il sistema che, tra le altre cose, produce simboli distaccati da ciò a cui si riferisce: per questo la parola è in grado di comunicare cose passate, future, possibili e impossibili. E se la politica è prima di tutto il tentativo di realizzare una certa idea di futuro (un programma), ecco che il linguaggio distaccato dall’immediato e dal presente diventa lo strumento per condividere visioni del mondo, per creare un “noi”.
Gli Stati Uniti, ad esempio, sono stati campioni di visione, quando lo scorso secolo hanno americanizzato società occidentali e non con la narrazione del “mondo libero”.
Il medium più significativo, in questo senso, è la metafora che, in quanto parte della concettualizzazione umana, risponde ad esigenze ben più profonde di quelle formali e letterarie. La metafora (dal greco metaphorá, da metaphérō, “io trasporto”) è una figura retorica che implica uno spostamento di significato. Si ha quando al termine che normalmente occuperebbe il posto nella frase, se ne sostituisce un altro la cui essenza o funzione va a sovrapporsi a quella del termine originario, creando così immagini di forte carica espressiva.
Il suo utilizzo è strettamente coinvolto nel modo in cui costruiamo il mondo intorno a noi e nel modo in cui il mondo è costruito per noi dagli altri. Un altro esempio attinente agli Stati Uniti, in questo caso, è la metafora della “guerra al terrore”, promossa dall’amministrazione Bush all’indomani dell’11 settembre, con il duplice scopo di creare consenso attorno alle operazioni militari in Afghanistan e in Iraq e di delegittimare – annullandola- la civiltà dell’avversario.
Consapevoli del potere delle parole, i politici ne fanno largo uso per intervenire sulla produzione di significati, sulla condivisione di visioni e sul posizionamento dei gruppi in competizione. E per farlo bene si servono di norma di professionisti delle relazioni pubbliche e della comunicazione come lo spin doctor, che conosce a fondo le dinamiche del contesto politico in cui opera. E con le parole può dividere, unire e (nel migliore dei casi)… far vincere le elezioni!
Avete appena letto la rubrica “Le parole al potere”. Non perdete gli altri capitoli su Detti e Fumetti!
Presto verranno anche raccolti in un libro che sarà disponibile su Amazon.
illustrazione di Filippo Novelli
[CHIARA SFORNA PER DETTI E FUMETTI-SEZIONE COMUNICAZIONE DELLA POLITICA-ARTICOLO DEL 15 MAGGIO 2020]