DARIO SANTARSIERO ALIAS WILLY IL BRADIPO intervista MAURO CONCIATORI, un documentarista prestato al Cinema

Oggi cari lettori di Detti e Fumetti, oggi esploriamo un nuovo ambito del Cinema, facendo quattro chiacchiere con il mio amico Mauro Conciatori.

W. Allora Mauro ti presento al nostro pubblico: sei nato a Roma il 18 giugno 1957; sei un regista cinematografico, sceneggiatore e critico cinematografico. Sei stato direttore della rivista on-line di cinema Zabriskie Point, attiva dal 1999 al 2013. Come documentarista realizzi Sinfonia di una città, Architetti italiani del 900, L’oro di Dino – (Dino De Laurentiis, Giuseppe Rotunno) – L’architettura delle luci e La città garbata, prodotto dall’Istituto Luce, sul quartiere romano della Garbatella.

Aiuto regista di Michelangelo Antonioni su due progetti purtroppo non completati, hai lavorato come assistant director negli Stati Uniti negli anni Ottanta. Nel 2019 realizzi il film documentario L’intelligenza del cuore – dedicato all’attrice Ilaria Occhini. Sempre nello stesso anno finisci il montaggio di Amore a prima vista – dedicato all’attrice Elena Cotta. I due film documentari fanno parte di un progetto teso a omaggiare le grandi interpreti del cinema, televisione e teatro italiano.

Nel 2021 giri la serie animata “Le Visioni di Tim” per Tim Vision. Nel 2022 ultimi il docufilm “Over The Rainbow”, storie di ragazzi con la sindrome di Down. Nello stesso anno il cortometraggio H2NO. Gli ultimi anni sono particolarmente fecondi!

W. Perché hai deciso di fare il regista?

MC. A 4 anni, esattamente nel 1961, mentre la mia governante francese mi portava a spasso sui vialetti del laghetto dell’EUR la mia attenzione fu rapita da una visione del tutto particolare: una gru stava mettendo dentro l’acqua una spider. Chiesi alla mia governante che cercò di spiegarmi per bene cosa stesse accadendo, ma non mi capacitavo del perché far scivolare sul fondale un’automobile e non fare il contrario; alla fine, anche lei stordita dalle mie domande pressanti tagliò corto dicendomi “stanno girando un film, questo è il cinema “. Bene, risposi “da grande voglio fare il regista!”. Può sembrare una fiaba ma già da allora sapevo cosa avrei fatto. Ma non per vocazione reale (non potevo capire più di tanto) ma soltanto per il piacere di fare un qualcosa di anticonvenzionale come immergere una bellissima automobile nelle acque di un lago (a me sembrava gigante).

In qualche modo, a posteriori, il potere di fare qualcosa che agli altri non era permesso. All’epoca per me il cinema era una sala buia dove ammirare i miei eroi preferiti. Adoravo il cinema western, dove “tifavo” sempre per i “pellirossa”. Sempre dalla parte dei “deboli” e delle culture con rispetto della natura.

Ah. Dimenticavo di dire che il film in questione era L’eclissi di Michelangelo Antonioni. Già un segno del destino?!

A 17 anni, quindi 13 anni dopo, ero già su un set con Pupi Avati . Ero il 3 aiuto scenografo, ma per me respirare l’aria del set era magia pura. Il mio incanto iniziava a prender forma.

W. Cosa ti affascina in un documentario?

MC. La possibilità di poter avere una totale libertà di linguaggio. Non si hanno confini. Crescere e creare di pari passo con la storia. Di muovermi negli anfratti più reconditi di ciò che hai davanti a te. Di potermi muovere nella storia senza avere limiti. Avere si un punto di partenza ma poter cambiare tutto ciò che avviene tra l’inizio e la fine -che a volte devi aver ben chiara, mentre in molti altri casi ti arriva inaspettata per un dettaglio, per le mille pieghe della storia- attraverso le suggestioni che arrivano poco alla volta. Ma soprattutto è la storia stessa che cambia senza vedere, senza renderti conto che sta cambiando. Narrare la stessa storia a distanza anche di un solo anno prende forma e sostanza differente, perché noi mutiamo come muta la storia. Caso contrario saremmo dei rami secchi immutabili nel tempo.

Noi, esseri viventi, e il mondo che ci circonda, cambiamo di continuo, è come andar per mare, se vai dal punto A al punto B per svariate volte, sarà sempre diverso ciò che incontri, l’unica cosa che non cambia sono A e B, tutto ciò che è nel mezzo cambia, evolve…

Un’evoluzione totale, liberatoria nei confronti di noi stessi e del potenziale spettatore. Un punto sul quale non transigo è pensare sempre a chi dovrà usufruire di quelle immagini. Massimo rispetto per lo spettatore. Non creo gabbie ma palcoscenici aperti a chiunque. 

Fare un film di finzione è totalmente diverso, per questo negli anni ho preso le distanze dal cinema, soprattutto dal mainstream.

In un film hai dei confini entro i quali puoi agire. La sceneggiatura detta legge, senza essere di ferro, ma ti dà dei punti cardine dai quali non puoi deragliare, non puoi prescindere. E poi la fatica di un set composto da troppe maestranze e professionalità. Una macchina perfetta nella sua imperfezione. Un documentario “si accontenta” di una piccola troupe, dove tutti si sentono direttamente responsabili del proprio ruolo. In un film sono i capireparto che rispondono, in un documentario anche il runner è fortemente responsabilizzato. Ci si inventa ogni giorno.  Diciamo che in entrambi i casi non ci si annoia mai ma il set di un documentario è una piccola famiglia.

Inoltre, il documentario mi permette di poter spaziare dal sociale all’arte, dai ritratti a storie di vita reali dandomi ogni volta stimoli diversi.

Ad esempio, l’ultimo docufilm, Over the Rainbow, mi ha messo di fronte a delle realtà che tutti conosciamo ma che continuiamo a eludere: il mondo delle persone con la Sindrone di Down. Un “mondo” non ancora pienamente accettato. La diversità mette ancora paura ai “normodotati”, lo stato fa troppo poco, e non cerca di integrare questo mondo con il mondo “normale”. Ma poi cosa vuol dire normalità? 

Un progetto durato quasi 2 anni che mi ha assorbito totalmente e che rimarrà sempre dentro di me. Una pietra miliare per il mio cuore è la mia anima.

W. Dal punto di vista della regia cosa non rifaresti e perché?

MC. Non tornerei mai dagli States. Tornato in Italia dopo aver capito come funzionava la “macchina cinema” credevo di poter spaccare il mondo di celluloide in Italia, di poter fare la differenza, di poter dare qualcosa al cinema italiano. In realtà ho trovato soltanto porte chiuse e bastoni tra le ruote. Solo perché ero “un americano”. E considera che tra la fine degli anni ‘80 e ‘90 ero considerato tra i registi di maggior talento, anche se sono sempre stato un lupo solitario. Non è un’accusa ma una constatazione che mi ha reso più maturo e coerente con me e fornito maggior rispetto verso gli spettatori.

Di fatto non mi rimprovero questa scelta. “Va tutto bene”. Anche questo sentirmi estraneo al mondo del cinema italiano. 

In realtà l’unica cosa che mi rimprovero maggiormente è di non aver lottato abbastanza per imporre la mia visione cinematografica e, di conseguenza, essermi chiuso nel mio angoletto dorato, nella comfort zone, come regista di cinema d’impresa con corporate aziendali, brand e commercials.

Da un punto di vista prettamente tecnico e artistico non mi rimprovero nulla. Ogni progetto realizzato mi ha dato ciò che mi doveva dare. Non ho rimpianti e non mi debbo rimproverare nulla. Ogni scelta l’ho portata fino in fondo con coerenza, passione, amore.

W. Che responsabilità ha un regista nei confronti degli attori e di chi guarderà il film?

MC. L’onestà di saper raccontare storie con un linguaggio immediato e semplice, che non vuol dire semplicistico, ma di dedicare sempre la massima attenzione allo spettatore. Sai non credo a quei registi cosiddetti autoriali che si lamentano con frasi tipo “non hai capito ciò che volevo raccontare”. Ecco, quel “non hai capito “mi fa imbestialire. Se non ti hanno capito sei tu che hai fallito, non loro. Il regista ha il compito preciso di saper comunicare storie, eventi, drammi, emozioni, risate, attraverso la  “sincerità” del racconto. Una sincerità che rubo a Michelangelo Antonioni quando afferma che “un artista prima di tutto deve essere sincero”. 

Una sincerità che spesso non riscontro e che per me è essenziale quando narro delle immagini che “miracolosamente” si uniscono in un film. Come la potenza di un fulmine si abbina alla poderosità di un tuono.

Un regista è un artista ma anche un artigiano e come tale si deve preoccupare di creare un prodotto che possa soddisfare le svariate esigenze che sono dietro ad una pellicola. Incuriosire gli spettatori, accontentare il produttore, rendere felici gli attori per aver partecipato a qualcosa di unico.

Ecco, questo unico è importante nel rapporto che si instaura con gli attori sul set. Qui il regista si trasforma in un novello Freud, per capire in fondo l’anima dell’attore, poterne sfruttare le sfumature della sua anima al fine di dare unicità al personaggio che va a interpretare. Quindi un regista psicologo, padre, amante, al quale l’attore deve far riferimento. Senza questi prodromi il regista fallisce e con esso naufraga il film. Gli attori sono il medium registico “nell’inquadratura”.   In quanto tali il regista deve affidarsi a loro dopo che gli attori si sono affidati a lui. Senza un regista sarebbe anarchia totale. Ma scopro l’acqua calda. 

Sono contrario da sempre al regista anche attore, non può mai prendere le distanze da uno dei ruoli. Solo Orson Welles se lo poteva permettere. Unico. Gli altri grandi registi non hanno mai combinato i due ruoli. Griffith, Capra, Lubitsch, Ford, Tourner, Sirk, Ozu, Antonioni, Visconti, Zurlini, Coppola, Cimino, Scorsese, Villeneuve, P. T. Anderson (e così ho detto anche i miei registi preferiti!)

W. Vuoi parlarci della tua l’esperienza con Antonioni?

MC. Unica. E ho detto tutto e niente.

Uso una parafrasi della famosa scena da Gli ultimi fuochi di Elia Kazan e del nichelino, dove il produttore da una grande lezione di cinema al regista in crisi.

Eravamo nel borgo di Antonioni a Bovara di Trevi (Umbria). Estate. Mentre eravamo in piena preproduzione del film The Crew. All’epoca mangiavo il sugo di pomodoro ma non i pomodori crudi. Non sopportavo la consistenza. La contadina che portava in tavola i pomodori non capiva la mia reticenza ad assaggiarli. Per giorni Antonioni guardava il mio atteggiamento anche un po’ snob ma non accennava a nessuna critica. Aveva già avuto l’ictus ma con poche parole e molti gesti si faceva capire. Dopo una decina di giorni sbottò. Mi disse “mamma mia”, uno sguardo di rimprovero è un gesto stizzito della mano sinistra. Rimasi sorpreso dalla sua “azione”. Antonioni era sempre molto pacato con me, aveva un atteggiamento paterno, di comprensione, ma non digeriva che non provassi neanche ad assaggiare il pomodoro del suo orto. Quasi un affronto. Nonostante lo conoscessi mi senti in grande disagio, non potevo contraddire il maestro, il mio amato maestro di cinema e di cultura. Quindi, molto riluttante, assaggiai il famoso pomodoro che assomigliava più a un melone per la sua grandezza. 

Il mio volto riluttante si aprì in una smorfia di assoluto piacere. Il nirvana. La “carne” del rosso pomo era soda, dura, carnosa, voluttuosa. Un’esperienza al confine del mistico (nel piccolo borgo tutto aveva una connotazione al di là della comprensione umana). Mangiare quel pomodoro mi fece capire molte cose ma soprattutto quanta verità e quanta bellezza risiede nei piccoli gesti quotidiani, in qualcosa che volte non diamo peso. La lezione del maestro era questa: osservare, meditare, elaborare e partorire. In questo caso era suscitare in me la capacità di vedere ben oltre l’apparenza, di vedere cosa esiste dietro, dietro a ogni cosa, che sia un film o un pomodoro.

Da quel giorno in poi non ho più smesso di mangiare pomodori e di tentare di generare prodotti che siano buoni come quel pomodoro!

Poi potrei dire delle giornate passate insieme nei cinema di Roma a cibarci di immagini, oppure di scrivere e sentire i suoi No quasi violenti a schiaffeggiare la mia stoltezza cinematografica.

Lui è stato unico. Nella cinematografia mondiale e per me.

W. Non trovi che nell’ essere regista e critico cinematografico ci sia una sorta di contraddizione?

MC. No. Non esiste nessuna contraddizione, anzi, si può essere più attenti nelle definizioni di un’opera in entrambi i casi. Importante è sempre l’umiltà. Senza non si va da nessuna parte. Entrambi i ruoli hanno in comune la sincerità, senza di essa non si può dire di essere onesti. O dietro la macchina da presa o davanti ad uno schermo si deve avere la capacità di identificazione con la storia. 

W. Il tuo sogno nel cassetto?

MC. Realizzare un grande affresco sulla “Bellezza”, sul concetto, tra ideale e reale, tra ciò che si vede e ciò che è dietro all’immagine in se. Qui ritorna il ruolo del demiurgo come unico vettore di tante verità, quelle tante verità delle quali si compone il concetto astratto di Bellezza che ha affascinato da secoli l’essere umano. Un concetto tanto fragile quanto incorporeo nella sua vaghezza. “Non esiste saggezza senza incertezza”. E questo è ciò a cui aspiro.

W. Grazie Mauro anche a nome dei lettori di Detti e Fumetti per questa interessante chiacchierata

[Dario Santarsiero per Detti e Fumetti- Sezione Cinema – Articolo del 7-Agosto-2022]

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