I MIGLIORI ARTICOLI SUL FUMETTO # 1

Continuiamo con la nostra raccolta dei migliori articoli sul fumetto.
Oggi riportiamo quello di Davide Cali.
>Quella sottile differenza tra disegno e illustrazione di Davide Cali<
La prima cosa che faccio, quando sfoglio il book di  un fumettista, è spiegargli, di solito, che nel suo book non c’è nessun  fumetto.
E’ un fenomeno abbastanza curioso. I book dei  fumettari sono pieni di disegni, schizzi a matita, character design, tutto tranne  che fumetto.
Dico che è curioso perché i fumettari spesso divorano  letteralmente i fumetti e quindi dovrebbero sapere che il fumetto vuol dire  disegno sequenziale e soprattutto “narrativo”. Ma moltissimi, la maggior parte,  di quelli che mandano in giro materiale, compongono poi i propri book  esclusivamente con bei disegnini, le classiche pin-up dei personaggi che gli piacciono o di  quelli che pensano di aver inventato.
Quando apro il book di un illustratore per bambini il  fenomeno si ripete puntualmente: nemmeno un’illustrazione.
Tutti disegnano cercando uno “stile”, senza andare  all’essenza delle cose e cioè che “illustrare” è anche ciò che illustri e non solo come lo fai.
Devo dire che la convinzione che sia lo “stile” a  fare l’illustratore riceve il sostegno della critica che ogni paio d’anni elegge  un nuovo “stile” come trendy, e lo investe di premi e  riconoscimenti, confortando l’equazione stile = illustrazione.
In questo senso gli anni ’90 furono decisamente,  parlo degli illustratori e delle illustratrici italiane, gli anni “materici”.  Non importa cosa disegnassero, bastava che fosse “crostoso.” Diversi tra gli  illustratori in voga all’epoca avevano una costruzione della tavole inesistente  e un modo di disegnare i personaggi niente più che “scolastico” (inteso nel  senso del libro di scuola), ma la “crosta” li fece promuovere “illustratori di  grido”, almeno per due o tre anni.
I primi anni 2000 sono invece stati gli anni delle  “decoratrici”, le illustratrici che sulle tavole hanno appiccicato di tutto:  stoffa, bottoni, specchietti. Una volta a una dissi che il suo stile si ripeteva  un po’, che forse avrebbe dovuto evolvere in qualche direzione.
Mi disse che infatti lo stava facendo: aveva appena  comprato dei nuovi bottoni da appiccicare.
Ora il punto è che l’illustrazione dovrebbe essere  “narrativa”. Se applicata a un libro, a una storia, dovrebbe esserlo a  maggior ragione. Ai corsi insegno sempre che il bravo illustratore non è quello  che ricalca pari pari il testo: il testo va interpretato, per produrre qualcosa  in cui i due linguaggi, scrittura e disegno, siano complementari.
Quindi va bene ogni deformazione del personaggio,  ogni materiale usato per decorare le pagine. Anche questi espedienti in qualche  modo “raccontano” qualcosa. Del resto anche la fascinazione che si può avere per  le sfumature che riescono in una pennellata d’acquerello o nella “crostosità” di  un acrilico, raccontano qualcosa, o perlomeno la evocano. Detto questo le  illustrazioni dovrebbero comunque “raccontare”, per distinguersi da ciò che  altrimenti potremmo chiamare pittura o semplicemente “bei  disegnini”.
Gli anni attuali sono invece gli anni delle  “pittrici” nelle cui tavole regnano atmosfere sospese, fatte di nulla, quando  non sfiorano l’astrattismo e allora si riducono a strisce di colore. Tempo fa  un’allieva mi chiedeva: ma non si può inserire la pittura nell’illustrazione?  Certo che si può. L’illustrazione si è sempre contaminata e continua a farlo. Ma  c’è da capire: perché vuoi fare una cosa se in realtà non ti piace farla? Perché  ti ostini a voler parlare una lingua che non vuoi imparare?
Credo che il centro della questione sia questo: da  una decina d’anni è diventato di “moda” fare libri per bambini. Editori di ogni  genere, da quelli specializzati in libri di cucina a quelli che fanno guide  turistiche, si sono dati al libro per bambini, forse attirati dall’illusione di  infilarsi in un mercato ricco. Lo stesso è per gli illustratori: tra i ragazzi  che vorrebbero disegnare per vivere, credo che un buon 80% passi tra gli stand  della Fiera di Bologna sperando di trovarvi un lavoro.
Ma per riuscirci dobbiamo tornare al punto di  partenza: bisogna saper distinguere tra disegno e illustrazione.
Tra le illustratrici-pittrici che vedo in giro, che  più o meno copiano tutte tre o quattro illustratori di grido al momento, tra cui  Valerio Vidali, Joanna Concejo e Violeta Lopiz (ma qua e là aleggia anche il  gotico americano), si sprecano tavole piene di niente, con ragazzine pensierose  alla finestra o assopite tra i fiori.
Sinceramente, roba molto  “adolescenziale”.
Talvolta si tratta di  bei disegni, evocativi, ma di cosa? Si può raccontare delle storie solo con  questa roba? Ovviamente sì, perché si può fare tutto.
Ma l’illustrazione è,  o dovrebbe essere, qualcosa di più. Se le immagini sono ferme e nel disegno non  succede nulla, quello è un disegno.
Oppure è illustrazione da galleria d’arte, da  copertina, da collezione di cartoline.
I libri invece devono essere dinamici. Non ci può  essere “ripetizione” perché sono già un’arte seriale, in quanto ognuno viene  pubblicato in migliaia di copie.
E un libro, possibilmente, dovrebbe essere diverso  dall’altro, esattamente il contrario di quello che accade nella pittura, dove la  copia è richiesta, proprio perché si vendono gli originali. Quindi se uno  disegna una “ragazza con un girasole in mano” e l’oggetto “funziona” il  gallerista facilmente ne chiederà una decina, più o meno sullo stesso  genere.
Ma non si può pensare di fare libri disegnando sempre  e solo ragazze con un girasole in mano.
La comprensione del  proprio target professionale mi sembra importante, perché troppe persone si  ostinano a cercare la propria carriera nel posto sbagliato.
Tempo fa un amico mi ha raccontato che quando  cominciò a disegnare fece, per qualche tempo, il tatuatore. Aveva frequentato un  corso e si era comprato la macchinetta per i tatuaggi, quindi aveva iniziato a  tatuare. In realtà poi di tatuaggi ne fece pochissimi e anzi a un certo punto si  bloccò, forse era un momento suo di crisi, insomma piantò tutto. Ricominciò a  disegnare solo dopo qualche tempo, ma dedicandosi ad altro.
Solo qualche giorno fa ho ripensato al suo racconto e  alla sua mancata carriera di tatuatore e una domanda mi ha  fulminato:
Come diavolo può mai aver pensato, proprio lui, di  fare il tatuatore?
Il fatto è che il mio amico, non ha neanche un  tatuaggio.
Ora: avete mai visto un tatuatore senza  tatuaggi?
Non credo. I tatuatori ne sono pieni. Quando non  hanno niente da fare, se ne fanno uno nuovo uno. Le loro fidanzate sono piene di  tatuaggi, spesso sono tatuatrici anche loro e il massimo divertimento è tatuarsi  a vicenda. È un mondo tutto particolare, di gente che ama il proprio lavoro, al  punto di imprimerselo sulla pelle, di gente che ha fatto della propria passione  anche un lavoro. Quindi come professionisti appartengono a un “mondo”. E questo  bisogna fare per svolgere un mestiere artistico: appartenere a un mondo. Se non  hai neanche un tatuaggio, come puoi pensare di fare il tatuatore?
Se non capisci il senso del disegno sequenziale, come  puoi pensare di illustrare libri?
Fare la giusta scelta è molto difficile. Spesso sono  caduto in errore anch’io.
Anni fa un amico mi convinse a scrivere dei soggetti  per la Disney italiana. Scrissi diverse storie, contattati la redazione e mi  affidarono ad una redattrice.
Non posso dirvi la quantità di “errori mortali” che  commisi in quelle storie. Per un periodo gliene mandai diverse a settimana e lei  puntualmente mi chiamava e mi massacrava al telefono per 20 minuti dicendomi  dove avevo sbagliato. Il problema è che io pensavo di portare la mia impronta in  un universo, quello disneyano, che non ne aveva nessun bisogno. Preparai le mie  storie con la presunzione di sapere cosa fosse una “buona storia” e ispirandomi  alle storie più belle che avevo letto da bambino, ma sbagliai, perché avrei  dovuto invece leggere e studiare quelle recenti. In realtà ci avevo provato, ma  non mi erano piaciute. Già lì avrei dovuto capire che la cosa non faceva per me,  invece mi ostinai a pensare che forse non avevano autori capaci di scrivergli  belle storie.
Errore anche questo. Gli autori ce li hanno e  scrivono esattamente le storie che alla redazione piace pubblicare, storie che  rispettano determinate scelte che bisogna conoscere profondamente. Non ci si  improvvisa sceneggiatori o disegnatori per la Disney e prova ne è il fatto che  chi ci lavora, ne è talmente intriso, che poi raramente riesce a fare dell’altro  quando ci prova, perché scrollarsi di dosso il modello, narrativo e grafico  della Disney, è molto difficile.
In seguito ho commesso lo stesso errore in altre  occasioni. Anni dopo un altro amico mi disse che Mario Gomboli cercava bravi  sceneggiatori per Diabolik.
Premetto subito una cosa: non ho mai letto Diabolik.
A dirla tutta, per usare un delicato eufemismo,  Diabolik non mi è mai piaciuto.
Ciò non mi impedì di pensare che, prendendolo  semplicemente come un lavoro, avrei potuto scriverne delle storie. Con questa  convinzione andai in un negozio di fumetti usati e comprai una ventina di vecchi  numeri da studiare.
Devo dire che leggerli mi confermò il motivo per cui  Diabolik non mi aveva mai attirato. Le storie sono terribilmente banali e tutti  i personaggi si comportano e parlano in un modo talmente inverosimile da  risultare imbarazzante.
Ciò ovviamente, secondo il mio gusto  personale.
Questa conferma non mi scoraggiò: pensai che sapendo  scrivere “di meglio” avrei senz’altro potuto trovare dei soggetti da sviluppare  per il personaggio.
Mario fu molto gentile, come sempre. Ci eravamo già  incontrati anni prima, ma non in virtù di questo (non si ricordava di me) mi  disse che avrei potuto mandargli i miei soggetti quando volevo. Cominciai a  scriverne e lui a bocciarli perlopiù dicendomi che il mio Diabolik, non si  “comportava” da Diabolik.
Dopo le prime bocciature cominciai ad entrare un po’  di più nella psicologia del personaggio, al punto che le mie idee risultarono  “prevedibili”, nel senso che Diabolik era più “raffinato”.
Io, lo dico sinceramente, non capivo. Diabolik è prevedibile! Cosa c’era di sbagliato in  quel che facevo?
Semplice: che non conoscendo davvero il personaggio,  non riuscivo a distinguere il grado di prevedibilità che separa, per i lettori  di Diabolik, una sua storia da qualcosa che non lo è.
Impiegai qualche settimana a rendermi conto che  Diabolik non faceva per me o meglio, che io non facevo per lui, perché avevo  commesso un errore madornale: avevo pensato di scriverlo senza conoscerlo e  soprattutto senza apprezzarlo. Avevo pensato che fosse solo un costume, una  nemesi con dei personaggi di contorno e che bastasse progettargli dei possibili  “colpi” per scriverne una storia.
Tornando ai libri per bambini, ritengo che comincino  ad essere un mercato un po’ sopravvalutato dagli illustratori e ciò è motivo di  frustrazione perché girano spesso inutilmente in cerca di un lavoro che non  troveranno.
E il motivo è che lo cercano nel posto sbagliato.  Illustrazione può voler vuol dire molte cose: c’è l’illustrazione per  lapresse, per la narrativa adulti, per le gallerie d’arte. Ognuno di  questi generi è un mondo, che bisogna affrontare e sconoscere.
L’attuale generazione di giovani illustratrici è  anche quella dei pupazzetti e dei bijoux: non ce n’è una che non  abbia una collezione di pupazzetti su flickr o una di anellini su etsy.com. La cosa non è  spiacevole, ma tradisce una voglia di “giocare alle bambole” che ha poco a che  vedere con una professione vera e propria e soprattutto con la voglia di  misurarsi con un progetto editoriale che è ciò che tutte dichiarano voler  fare.
I pupazzetti e gli anellini vanno bene, come hobby e  per arrotondare un po’ con un forma di artigianato artistico che il web oggi  rende globalmente accessibile, ma poi per fare i libri, bisogna proprio saper fare i libri.
In Francia dove lavoro diverse colleghe illustratrici  confezionano bijoux che poi vendono ai saloni, ma poi  quando fanno libri, fanno libri veri e propri. I bijoux ne ricalcano lo stile, ma i libri  rimangono la loro attività principale.
In generale i francesi nell’illustrazione sono più  professionali. Escono dalle scuole ben preparati e affluiscono nelle redazioni  dei mensili lavorando da subito.
Nel mucchio spesso si fa fatica a distinguerli uno  dall’altro perché gli stili si somigliano. Negli ultimi anni Marc Boutavant e  Benjamin Chaud hanno creato – involontariamente – un vero e proprio esercito di  imitatori che, ciascuno a modo suo, in un mercato florido come quello francese  (seppure ora in crisi come tutti gli altri) hanno trovato lavoro.
Di “artisti” ce ne sono pochi, ma sono enormemente  talentuosi, per stile e invenzione come Serge Bloch, Olivier Douzou o François  Roca che anche se sono artisti, rimangono “narrativi”.
Serge, con il suo tratto essenziale, inventa sempre  qualcosa, un gioco visivo, una gag. Olivier non fa un libro uguale a un altro,  ogni cosa che fa nasce intorno a un idea, un progetto. François è un mostro di  bravura tecnica ma aldilà della capacità tecnica le sue tavole sono vero e  proprio cinema.
Alla fine quindi,  penso che per dedicarsi all’illustrazione, si dovrebbe cominciare da questo: dal  saper distinguere la sottile differenza tra un  disegno e un’illustrazione. E dal capire se nel proprio disegno ci sono delle  storie da raccontare. Perché senza storie come si può pensare di fare  narrativa?
[Illustrazioni di Filippo Novelli]

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