COMUNICARE L’INCOMUNICABILE- Sciascia e l’Affaire Moro – LE PAROLE AL POTERE

COMUNICARE L’INCOMUNICABILE

Sciascia e l’Affaire Moro

 

murray e la lucciola

Murray e la lucciola

 

A proposito di parole, a proposito di potere. Leonardo Sciascia considera quasi un dovere, insieme etico e letterario, dare testimonianza di quel che non può essere testimoniato: il culto del sottosuolo, il potere materiale (diverso da quello formale o costituito), le trame degli schivi fautori dell’ordine.

Sciascia

Leonardo Sciascia

In breve, dare parola al mare di silenzio che incombeva sull’Italia della Prima Repubblica.

Lo fa, e ne dà una raffigurazione, con un sapere letterario duro e profondo, che è presagio e immaginazione delle cose del mondo.

Così, la sua opera si fa saggio, trattato, fiction, inchiesta… tutto ciò che serve affinché ad uscirne sia la verità.

È quello che gli riesce, forse più magicamente che altrove, nell’Affaire Moro (1978).

AffaireMoro

Qui Sciascia si impegna tenacemente su due fronti, fantastici e urgenti: la ricerca della verità e la restaurazione  della dignità. Per Moro e per il Paese.

Guai a farsi ingannare sulla validità della ricerca, se scorrendo le pagine dell’Affaire ci si accorge che la più parte dei riferimenti proviene da altra letteratura, da Pasolini a Borges, da Pirandello a Guzmàn.

D’altronde, come comunicare l’incomunicabile se non servendosi dell’immaginazione per eccellenza, quella letteraria? È quello che si sarà chiesto anche Aldo Moro scrivendo dalla “prigione del popolo” le sue lettere. Che Sciascia ha scandagliato parola per parola, silenzio per silenzio. Andando all’oculata ricerca di quello che il presidente della Democrazia Cristiana cercava di dire col non dire, in quei cinquantacique giorni “sotto un dominio pieno e incontrollato”; cercando tra le righe la verità dell’immaginazione (ossimoro solo per gli “illitterati”), di cui Moro avrà dovuto pur servirsi perché i suoi messaggi scampassero alla censura delle Brigate Rosse.

Quali metafore, allora? Quali parole? Lo scrittore sa che la forza della sua ricerca si basa sulla trasposizione dei fatti; lo insegnano Pirandello e Borges, e lo stesso Sciascia in Todo modo. E doveva esserne consapevole anche Moro, che dalla prigionia leggeva le fredde e implacabili sentenze dall’esterno, quelle degli “uomini del potere” – la più dura di tutte: gli “amici” democristiani lo disconoscevano. Perché tutto l’Affaire – il rapimento, le indagini, il dibattito inventato, il ritrovamento- è già finzione: è lavoro di post-verità (sulle parole di Moro), è invisibilità dell’evidenza (Poe), è fuga dal calcolo delle probabilità.

Prima pagina

A un tratto, è pretendere che in un Paese come l’Italia possa imporsi la ragion di Stato. Così Sciascia, solo e libero, decide di contare sull’evidenza, che nel linguaggio di Moro sembra coincidere col novus e l’inverosimile. Come il termine “famiglia” (“Ha ragione Moravia: in Italia, la famiglia spiega tutto, giustifica tutto, è tutto”), che Moro utilizza più volte nelle lettere in maniera distorta e sproporzionata. A significare cosa?

“Se non avessi una famiglia così bisognosa di me sarebbe un po’ diverso”, scrive nella seconda lettera, diretta a Zaccagnini. E poi ancora, nella lettera pervenuta al Messaggero il 29 aprile: “è noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte”.

Affermazioni, queste, che trovano pronta smentita nella situazione oggettiva della famiglia Moro, che soffriva sì sul piano degli affetti, ma non su quello patrimoniale o sociale.

“Lo Stato di cui si preoccupa, lo Stato che occupa i suoi pensieri fino all’ossessione, io credo l’abbia adombrato nella parola «famiglia»”, una metafora secondo Sciascia “che non è mera sostituzione – alla parola Stato la parola famiglia- ma come un allargamento di significato: dalla propria famiglia alla famiglia del partito e alla famiglia degli italiani di cui il partito rappresenta, anche di quelli che non lo votano, «la volontà generale»”.

Eccola la verità, la dignitosa verità, che ricorda il disegno democristiano sull’Italia del dopoguerra, e si nasconde dietro l’insegna di “grande statista”, affibbiata come un’impostura al Moro ormai impotente.

Con il tempo che sarà implacabile conferma delle premonizioni contenute nelle lettere e nelle pagine dell’Affaire, scritto – lo ricordo – “a caldo” nel 1978.

Due su tutte: l’implosione della Democrazia Cristiana (“il mio sangue ricadrà su di loro”) e le responsabilità evase del Partito Comunista – della sua “invenzione dello Stato”-, che per Sciascia sono “il punto di consistenza del dramma, la ragione per cui a Moro si deve in riconoscimento (in « riconoscenza ») la morte”.

E si capisce come l’operazione dello scrittore risponda a un fine ultimo, umanitario e cristiano: restituire la persona di Aldo Moro alla famiglia, al partito, allo Stato. Restituirla agli italiani, che possano aprire gli occhi di fronte alla più vera immaginazione.

Se siete arrivati fin qui, significa che avete letto il secondo capitolo della rubrica “Le parole al potere”.

Sarei felice di ricevere commenti e di rispondere a curiosità, se ci sono. E vi ricordo che presto tutti i capitoli saranno raccolti in un libro disponibile su Amazon.

 

Illustrazioni di Filippo Novelli

[CHIARA SFORNA PER DETTI E FUMETTI – SEZIONE COMUNICAZIONE DELLA POLITICA -ARTICOLO DEL 21 MAGGIO 2020]

Lascia un commento