Willy alias Dario Santarsiero intervista Johanne Affricot, Direttrice Artistica Spazio Griot

Cari lettori di Detti e Fumetti, non potevo perdere un importante evento che si svolge al  Mattatoio di Testaccio padiglione 9b: Spazio Griot. Ho intervistato per voi Johanne Affricot, curatrice e produttrice culturale indipendente romana, di discendenza haitiana e ghanese, fondatrice nel febbraio 2015 del magazine culturale “GRIOTmag” blog italiano estesasi poi in SPAZIO GRIOT, con il suo collettivo: Celine Angbeletchy (EHUA) e Eric Otieno Sumba, che sono alla continua ricerca di un linguaggio culturale internazionale e locale, che approda nella cultura africana e la sua diaspora,  con le sue sfumature artistiche e sonore.

W: A che età hai capito che l’arte avrebbe fatto parte della tua vita?

J: Sai, non saprei dirti con esattezza quando ho capito a che età l’arte avrebbe fatto parte della mia vita. Credo che l’aver fatto discipline artistiche come danza moderna, quando ero bambina, così come teatro, da adolescente, con la grandissima Francesca Maria Romana Coluzzi (scomparsa purtroppo nel 2009), abbia contribuito a maturare il mio interesse verso l’estetica e il linguaggio artistico. Subito dopo la fine dei miei studi universitari, ho iniziato a lavorare per un’organizzazione non governativa; mi occupavo di responsabilità sociale di impresa e relazioni esterne. I progetti che gestivo, o che sviluppavo, erano tutti legati a forme di espressione creativa (cinema, moda, scrittura principalmente). Poi negli anni questa direzione ha assunto una linea più chiara, e in maniera del tutto naturale ho iniziato a lavorare per agenzie creative o associazioni culturali nelle quali, come responsabile di progetto, concepivo sia idee e contenuti, sia dirigevo o coordinavo i progetti. Da Nastro. Say Yes to It, al Teatro Parenti di Milano, al MIT in Town alla Fondazione Auditorium Parco della Musica a Triumphs and Laments, di William Kentrdge, al MAXXI. Tutte attività che ho amato, che si sono depositate nella mia identità, ma a cui mancava qualcosa.

W: Perché lo Spazio Griot?

J: SPAZIO GRIOT perché proprio partendo da varie esperienze lavorative, così come dalla mia esperienza di bambina, prima, donna poi, Nera, cresciuta con l’audiovisivo, la letteratura, la cultura italiana, insomma, non vedevo alcuna rappresentazione di me stessa che fosse reale e presente, nel senso letterale del termine; piuttosto, una narrazione falsata da pregiudizi, stereotipi, da assunzioni, da chiusura. Così, ricca di una forte visione, e di un discreto bagaglio, nel 2015 decido di fondare GRIOTmag. L’idea era ed è quella di colmare la pesante lacuna che c’è nel racconto delle soggettività marginalizzate ed escluse, utilizzando un approccio artistico multidisciplinare, appunto, perché l’arte, nelle sue varie declinazioni, è il linguaggio che sento mi appartenga, probabilmente da sempre. Il focus di GRIOTmag è sempre stato raccontare le comunità artistiche e culturali della diaspora africana e dell’Africa per dirla più semplicemente, delle persone Nere, razzializzate, comprendendo anche altri gruppi, anche se non è un’impresa semplice perché si tratta pur sempre di un progetto indipendente, e portare avanti più istanze culturali e sociali, per quanto siano fortemente interconnesse, è complesso; ma non mi spaventa, bisogna solo strutturarsi meglio e avere un dialogo costante con la comunità, le istituzioni, il settore privato.

W:con che spirito gli artisti afro-italiani affrontano la realtà culturale italiana?

J: È una domanda complessa perché ogni condizione è soggettiva. Bisogna sempre prendere in considerazione che non si parla di un blocco monolitico ma di individualità: come tu sei un individuo e le persone italiane bianche sono individui. Posso dirti, però, che la maggior parte della comunità artistica afro-italiana con cui mi sono relazionata condivide una esperienza comune di alienazione, che assume diverse forme, che deriva da tanti luoghi, cercando e creandosi allo stesso tempo il proprio posto, con tutti gli oneri del caso. Ma c’è anche tanta felicità.

W: Il cinema africano che impatto ha in Italia?

J: Non credo abbia un impatto vero e proprio, anche se sentenziare in questo modo rischia di essere deviante, non avendo dati alla mano. Se parliamo di mainstream, posso dirti però con certezza: zero.

E credo lo veda anche tu; se parliamo di undergound, ci sono stati dei blog che facevano un ottimo lavoro di racconto e archiviazione di cosa viene prodotto nel continente e nella diaspora. Ma sono sempre iniziative indipendenti, non supportate. Poi abbiamo i festival di cinema africano indipendenti: da Roma a Firenze a Verona a Milano, o altre iniziative culturali che al loro interno ospitano l’audiovisivo africano e diasporico africano.

W:Le performance musicali dei giovani quanto sono influenzate dal retaggio culturale africano?

J: Dipende cosa intendi. Se parliamo di musica pop, c’è una onda di giovani sempre più crescente e potente che, partendo dagli UK, dalla Francia, dal Portogallo fino ad arrivare in Italia, sta includendo e diffondendo tutte una serie di sonorità, come l’afrobeats per esempio (con la “S”, perché è diversa dell’aforbeat di FelaKuti, per citarti un nome gigante), che stanno ridefinendo la club culture contemporanea anche nel nostro paese. Se prima l’hip-hop e il rap americani la facevano da padrone, oggi questo genere dirompente ha fatto il suo ingresso, guadagnandosi non pochi apprezzamenti e onori. E mi sembra si sia seduto per restare del tempo.

W: Che ruolo ha il teatro in Africa e come si rapporta qui in Italia?

J: È sempre difficile perimetrare un genere artistico a un continente piuttosto che a singoli paesi. Posso dirti che in Nigeria, in Ghana, in Etiopia ci sono  lunghe e antiche tradizioni orali performative, così come letterarie. La difficoltà, qui in Italia, in Europa e così via, sta nello spogliarsi di un approccio o sguardo occidentale a qualsiasi forma artistica che viene dall’Africa—in questo caso. Sicuramente ci sono similitudini, ma anche tante diversità, quindi il gioco che ci farà vincere tutt* sta nel rilassare il nostro giudizio e senso estetico, e farci attraversare da ciò che presenta codici nuovi o molteplici. Poi possono piacere o non piacere, è legittimo, ma questa è un’altra storia. Liliana Mele e Ilenia Caleo il 5 luglio nello spazio esterno tra il padiglione 9a e il padiglione 9b del Mattatoio parleranno proprio di questo, nell’incontro Archivi dispersi e resistenze. Il teatro etiope prima, durante e dopo l’impero di HailéSelassié. Mele, che è italo-etiope ha sviluppato la sua tesi di laurea magistrale proprio su questo, e invito tutt* le/i lettor* di Detti e Fumetti a partecipare a questo incontro culturalmente arricchente e rilevante.

W:Cosa consiglieresti ad una giovane afro-italiana che ha deciso di intraprendere il duro cammino dell’arte?

J: Le consiglierei di ascoltarsi, di trovare o fare comunità; di connettersi con chi ha intrapreso questo percorso da tempo. Questo le consiglierei.

W:Qual è il tuo sogno nel cassetto?

J: Ne ho tanti, sai? Al momento, parlando di sogni concreti, vorrei avere un nostro spazio fisico dove poter sperimentare, esplorare e discutere. Vorrei che SPAZIO GRIOT diventasse un tempo lungo più strutturato, vorrei che fosse sostenuto e non fosse trattato come un trend o un’anomalia del sistema.

W: bene Johanne ti ringrazio anche a nome dei lettori di Detti e Fumetti.  

J: Grazie per lo Spazio, Willy. A Presto.

Cari amici, vi ricordo le date di Spazio Griot in essere al Mattatoio padiglione 9b dal 30 luglio al 4 settembre 2022.

Di seguito il link su cui cliccare per avere tutte informazioni

https://www.mattatoioroma.it/mostra/sediments-after-memory

[Dario Santarsiero per Detti e Fumetti- Ssezione teatro  – Articolo del 10-7-2022 ]

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