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FARE COSE CON LE PAROLE: IL DISCORSO POLITICO da “Le parole al potere” di Chiara Sforna

Esiste un tempo in cui le parole della politica acquistano più autorevolezza ed enfasi che altrove. Si tratta del momento in cui un politico prende la parola di fronte ad un pubblico: che sia in un’aula legislativa, ad un comizio politico o ad un’adunanza di partito, il discorso politico ha sempre un’alta valenza simbolica e espressiva perché in esso vengono condensati – e portati ad un’intensità superiore- gli elementi strutturali della comunicazione politica: la condivisione di una rappresentazione della realtà, la personalizzazione del progetto politico e la costruzione della fiducia elettorale.

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Murray e l’arte oratoria -illustrazione di Filippo Novelli

 

L’importanza della dialettica in politica è nota sin dalla Grecia classica, dove era costume far coincidere l’attività dell’oratore con quella del politico. Risale al mondo latino e al De Inventione di Cicerone la definizione di retorica come “scienza politica”, tanto era assodato l’uso tecnico delle parole in pubblico per far affiorare il consenso.

Questo sodalizio tra politica e dialettica, però, ha segnato anche una malaugurata percezione dell’arte oratoria sul piano morale, troppo spesso liquidata come strumento di persuasione, e quindi manipolatorio.

Anche quando il linguaggio ha riacquistato la giusta centralità in ambito politologico (vedi gli studi di Lasswell e Edelman), le sempre minacciosamente percepite intenzioni dell’oratore non hanno smesso di gettare un’ombra su una pratica di per sé eccezionalmente democratica, tanto che da allora è più o meno un dato scontato che occuparsi di comunicazione politica significhi chiedersi in che modo il potere condizioni e manipoli il pubblico dei cittadini.

 

È l’eterno riproporsi del potere cattivo (e stregone) contro i cittadini buoni, o indifesi, o stupidi, a seconda dei casi. Ma la realtà è, come sempre, moto più complessa. Perché se è vero che “si fanno cose con le parole”, è pure vero che giudicare l’effetto di quelle parole con lo sguardo moralizzatore dei posteri è tutt’altro che metodicamente corretto. Ma questa è un’altra storia.

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Ronald Reagan era soprannominato “the great communicator” per l’incisività dei suoi discorsi pubblici

 

Affinché un discorso sia effettivo, è opportuno che esso sia costruito per impressionare. Uno speechwriter che si appresta a preparare un discorso ha innanzitutto in mente la struttura da seguire e da adattare al contesto di riferimento.

L’inizio è per convenzione occupato dai saluti e, di solito, da una frase (una battuta o una domanda retorica) che possa suscitare interesse nel pubblico: prima si ricerca l’attenzione generale, poi su uno specifico argomento di cui si introduce la visione che l’oratore vorrebbe condividere con chi ascolta.

La parte centrale del discorso è dedicata all’approfondimento delle argomentazioni di chi parla. Qui entra in gioco il concetto di scenario che sarà il terreno sul quale impostare tutte le strategie linguistiche: attraverso l’utilizzo di figure retoriche come i tropi (metafore e similitudini sono le più note) si vuole stimolare l’immaginazione del pubblico e rendere il messaggio semplice e memorabile.

A tal fine, si predilige l’impiego di rappresentazioni legate ai cinque sensi, che possano indurre il pubblico ad associare il messaggio a un’esperienza vissuta, attraverso la descrizione di una vista, un sapore o un odore sufficientemente familiari in un determinato contesto. La conclusione del discorso, in un’ottica di climax, ne rappresenta anche il momentum: è a questo punto che l’oratore catalizza tutti gli elementi prima esposti per formulare una vera e propria call to action, che consiste nel tradurre la disponibilità del pubblico in azione (nel caso di un candidato alle elezioni si sostanzia in un invito al voto).

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 Barack Obama nello Studio Ovale insieme al suo speechwriter Jon Favreau

Va da sé che una struttura discorsiva come quella esposta (introduzione, scenario, appello finale) non può reggersi soltanto sul lato del contenuto. Le parole hanno bisogno di una sovrastruttura metalinguistica che faccia assimilare l’intenzione di chi le pronuncia: la gestualità, la tonalità e il timbro vocale, il ritmo e la cadenza non fanno soltanto parte del corredo stilistico del discorso, ma sono segnali interattivi che comunicano l’esistenza di una relazione tra chi parla e chi ascolta. L’invito è di evitare di pensare al discorso politico come a un pronunciamento unidirezionale: il pubblico non è soltanto presente, ma anche vivo. Pronto a reagire a seconda del cambio di tono, delle pause e degli input dell’oratore. Ricercare la replica dell’audience è anzi il motivo stesso per cui un discorso viene pronunciato.

Se la strategia politica mira all’affermazione di un progetto comune, si coglie come l’importanza del discorso politico si basi proprio sulla possibilità di condividere visioni attraverso il linguaggio. Solennità, questa, che non è stata scalfita dal processo di “mediatizzazione” della politica, di cui è testimone la nostra epoca. Si commemorano discorsi che sono passati alla storia perché la storia l’hanno fatta – e di certo ci ricorderemo anche di questo pronunciato da Barack Obama dopo la vittoria alle elezioni presidenziali del 2008.

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Su Obama magari torneremo; nel prossimo capitolo vi portero’ indietro nel tempo, in un’epoca in cui forse le parole e le idee contavano più della realtà.

Intanto vi ricordo che tutti i capitoli della rubrica “Le parole al potere” saranno raccolte in un libro presto disponibile su Amazon. A presto!

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[Chiara Sforna per DETTI E FUMETTI – Sezione  Comunicazione della Politica – Articolo del 23 giugno 2020]

COMUNICARE L’INCOMUNICABILE- Sciascia e l’Affaire Moro – LE PAROLE AL POTERE

COMUNICARE L’INCOMUNICABILE

Sciascia e l’Affaire Moro

 

murray e la lucciola

Murray e la lucciola

 

A proposito di parole, a proposito di potere. Leonardo Sciascia considera quasi un dovere, insieme etico e letterario, dare testimonianza di quel che non può essere testimoniato: il culto del sottosuolo, il potere materiale (diverso da quello formale o costituito), le trame degli schivi fautori dell’ordine.

Sciascia

Leonardo Sciascia

In breve, dare parola al mare di silenzio che incombeva sull’Italia della Prima Repubblica.

Lo fa, e ne dà una raffigurazione, con un sapere letterario duro e profondo, che è presagio e immaginazione delle cose del mondo.

Così, la sua opera si fa saggio, trattato, fiction, inchiesta… tutto ciò che serve affinché ad uscirne sia la verità.

È quello che gli riesce, forse più magicamente che altrove, nell’Affaire Moro (1978).

AffaireMoro

Qui Sciascia si impegna tenacemente su due fronti, fantastici e urgenti: la ricerca della verità e la restaurazione  della dignità. Per Moro e per il Paese.

Guai a farsi ingannare sulla validità della ricerca, se scorrendo le pagine dell’Affaire ci si accorge che la più parte dei riferimenti proviene da altra letteratura, da Pasolini a Borges, da Pirandello a Guzmàn.

D’altronde, come comunicare l’incomunicabile se non servendosi dell’immaginazione per eccellenza, quella letteraria? È quello che si sarà chiesto anche Aldo Moro scrivendo dalla “prigione del popolo” le sue lettere. Che Sciascia ha scandagliato parola per parola, silenzio per silenzio. Andando all’oculata ricerca di quello che il presidente della Democrazia Cristiana cercava di dire col non dire, in quei cinquantacique giorni “sotto un dominio pieno e incontrollato”; cercando tra le righe la verità dell’immaginazione (ossimoro solo per gli “illitterati”), di cui Moro avrà dovuto pur servirsi perché i suoi messaggi scampassero alla censura delle Brigate Rosse.

Quali metafore, allora? Quali parole? Lo scrittore sa che la forza della sua ricerca si basa sulla trasposizione dei fatti; lo insegnano Pirandello e Borges, e lo stesso Sciascia in Todo modo. E doveva esserne consapevole anche Moro, che dalla prigionia leggeva le fredde e implacabili sentenze dall’esterno, quelle degli “uomini del potere” – la più dura di tutte: gli “amici” democristiani lo disconoscevano. Perché tutto l’Affaire – il rapimento, le indagini, il dibattito inventato, il ritrovamento- è già finzione: è lavoro di post-verità (sulle parole di Moro), è invisibilità dell’evidenza (Poe), è fuga dal calcolo delle probabilità.

Prima pagina

A un tratto, è pretendere che in un Paese come l’Italia possa imporsi la ragion di Stato. Così Sciascia, solo e libero, decide di contare sull’evidenza, che nel linguaggio di Moro sembra coincidere col novus e l’inverosimile. Come il termine “famiglia” (“Ha ragione Moravia: in Italia, la famiglia spiega tutto, giustifica tutto, è tutto”), che Moro utilizza più volte nelle lettere in maniera distorta e sproporzionata. A significare cosa?

“Se non avessi una famiglia così bisognosa di me sarebbe un po’ diverso”, scrive nella seconda lettera, diretta a Zaccagnini. E poi ancora, nella lettera pervenuta al Messaggero il 29 aprile: “è noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte”.

Affermazioni, queste, che trovano pronta smentita nella situazione oggettiva della famiglia Moro, che soffriva sì sul piano degli affetti, ma non su quello patrimoniale o sociale.

“Lo Stato di cui si preoccupa, lo Stato che occupa i suoi pensieri fino all’ossessione, io credo l’abbia adombrato nella parola «famiglia»”, una metafora secondo Sciascia “che non è mera sostituzione – alla parola Stato la parola famiglia- ma come un allargamento di significato: dalla propria famiglia alla famiglia del partito e alla famiglia degli italiani di cui il partito rappresenta, anche di quelli che non lo votano, «la volontà generale»”.

Eccola la verità, la dignitosa verità, che ricorda il disegno democristiano sull’Italia del dopoguerra, e si nasconde dietro l’insegna di “grande statista”, affibbiata come un’impostura al Moro ormai impotente.

Con il tempo che sarà implacabile conferma delle premonizioni contenute nelle lettere e nelle pagine dell’Affaire, scritto – lo ricordo – “a caldo” nel 1978.

Due su tutte: l’implosione della Democrazia Cristiana (“il mio sangue ricadrà su di loro”) e le responsabilità evase del Partito Comunista – della sua “invenzione dello Stato”-, che per Sciascia sono “il punto di consistenza del dramma, la ragione per cui a Moro si deve in riconoscimento (in « riconoscenza ») la morte”.

E si capisce come l’operazione dello scrittore risponda a un fine ultimo, umanitario e cristiano: restituire la persona di Aldo Moro alla famiglia, al partito, allo Stato. Restituirla agli italiani, che possano aprire gli occhi di fronte alla più vera immaginazione.

Se siete arrivati fin qui, significa che avete letto il secondo capitolo della rubrica “Le parole al potere”.

Sarei felice di ricevere commenti e di rispondere a curiosità, se ci sono. E vi ricordo che presto tutti i capitoli saranno raccolti in un libro disponibile su Amazon.

 

Illustrazioni di Filippo Novelli

[CHIARA SFORNA PER DETTI E FUMETTI – SEZIONE COMUNICAZIONE DELLA POLITICA -ARTICOLO DEL 21 MAGGIO 2020]

DESTRA E SINISTRA: LE PAROLE CHE DIVIDONO-parte seconda.

Murray gioca cap 1 parte 2

Per la rubrica LE PAROLE AL POTERE  continuiamo il nostro discorso sulla Destra e la Sinistra.

QUI trovate la prima parte

Questo posizionamento, che è al tempo stesso uguaglianza (tra “noi”) e disuguaglianza (da “loro”), viene sempre rispecchiato e ricercato dalla comunicazione politica. I politici, in particolare, fanno molta attenzione a scegliere le parole giuste per identificarsi e rappresentarsi agli occhi dell’elettorato. Lo ha messo ben in evidenza George Lakoff con il suo ampio studio sul potere del linguaggio.

lakoff

A suo avviso, esistono schemi (frame) che strutturano a lungo termine il modo in cui pensiamo. Nelle sue parole:

“Possono venirci presentati dei fatti, ma perché noi li possiamo interpretare devono concordare con quello che già esiste nelle sinapsi del nostro cervello. Altrimenti non li vediamo, o non li accettiamo come fatti, oppure ci confondono. A quel punto etichettiamo il fatto come irrazionale, folle o stupido, a meno che non abbiamo già un frame che dia a questi fatti un senso”.

Significa che anche la verità, se discorde con quanto è già stipato nel nostro cervello, non viene accolta o appare insensata. Se ogni parola evoca un frame – una serie di conoscenze, emozioni e immagini che servono a dare un senso a quanto ci viene detto- allora va da sé che la politica deve fare estrema attenzione quando indirizza messaggi ai cittadini e ai media. Ad esempio, i conservatori americani non usano mai l’espressione “matrimonio gay”, neanche per attaccarlo perché in questo modo rischierebbero implicitamente di legittimarlo.

Per Lakoff, infatti, non si deve mai utilizzare il linguaggio dell’avversario, neanche per contraddirlo. Così repubblicani e democratici, conservatori e progressisti, liberali e socialisti dovrebbero stare attenti, utilizzare sempre un linguaggio specifico, che delimiti  la propria identità entro confini ben definiti e non legittimi le posizioni altrui.

Si intende come il discorso si colleghi a quello cognitivo sulla produzione di significato. Anche in questo caso, è il solito Lakoff a venirci incontro col suo studio sulle metafore.

Il collegamento cognitivo che esiste tra discorso e politica deriva dal fatto che gli esseri umani hanno una capacità meta-rappresentativa, ovvero riescono a produrre rappresentazioni distaccate, al di fuori di una situazione fisica dove uno stimolo può avere luogo. (Si tratta della capacità di immaginazione, come quella di un bambino che dà forma nella propria mente ai personaggi della sua storia preferita).

Il linguaggio entra in gioco perché è il sistema che, tra le altre cose, produce simboli distaccati da ciò a cui si riferisce: per questo la parola è in grado di comunicare cose passate, future, possibili e impossibili. E se la politica è prima di tutto il tentativo di realizzare una certa idea di futuro (un programma), ecco che il linguaggio distaccato dall’immediato e dal presente diventa lo strumento per condividere visioni del mondo, per creare un “noi”.

Gli Stati Uniti, ad esempio, sono stati campioni di visione, quando lo scorso secolo hanno americanizzato società occidentali e non con la narrazione del “mondo libero”.

Il medium più significativo, in questo senso, è la metafora che, in quanto parte della concettualizzazione umana, risponde ad esigenze ben più profonde di quelle formali e letterarie. La metafora (dal greco metaphorá, da metaphérō, “io trasporto”) è una figura retorica che implica uno spostamento di significato. Si ha quando al termine che normalmente occuperebbe il posto nella frase, se ne sostituisce un altro la cui essenza o funzione va a sovrapporsi a quella del termine originario, creando così immagini di forte carica espressiva.

Il suo utilizzo è strettamente coinvolto nel modo in cui costruiamo il mondo intorno a noi e nel modo in cui il mondo è costruito per noi dagli altri. Un altro esempio attinente agli Stati Uniti, in questo caso, è la metafora della “guerra al terrore”, promossa dall’amministrazione Bush all’indomani dell’11 settembre, con il duplice scopo di creare consenso attorno alle operazioni militari in Afghanistan e in Iraq e di delegittimare – annullandola- la civiltà dell’avversario.

Consapevoli del potere delle parole, i politici ne fanno largo uso per intervenire sulla produzione di significati, sulla condivisione di visioni e sul posizionamento dei gruppi in competizione. E per farlo bene si servono di norma di professionisti delle relazioni pubbliche e della comunicazione come lo spin doctor, che conosce a fondo le dinamiche del contesto politico in cui opera. E con le parole può dividere, unire e (nel migliore dei casi)… far vincere le elezioni!

Avete appena letto la rubrica “Le parole al potere”. Non perdete gli altri capitoli su Detti e Fumetti!

Presto verranno anche raccolti in un libro che sarà disponibile su Amazon.

illustrazione di Filippo Novelli

[CHIARA SFORNA PER DETTI E FUMETTI-SEZIONE COMUNICAZIONE DELLA POLITICA-ARTICOLO DEL 15 MAGGIO 2020]

 

DESTRA E SINISTRA: LE PAROLE CHE DIVIDONO-parte prima.

copertina libro

Iniziamo oggi una serie di considerazioni che sto raccogliendo in un taccuino e che spero diventino un libro. Questa potrebbe essere la copertina di Filippo, ma non è detto.

Il primo capitolo della rubrica LE PAROLE AL POTERE che vi proporro’ in due parti si intitola:

DESTRA E SINISTRA: LE PAROLE CHE DIVIDONO

“È il vecchio sogno della magia: fare cose con le parole. Le parole denotano oggetti del mondo esterno e i vecchi maghi provavano a utilizzare le parole per cambiare, secondo i propri desideri, attraverso sortilegi e formule, la realtà che li circondava.golem1

È l’antico principio, già sottolineato da Aristotele, secondo cui le lettere sono come gli atomi che compongono la materia: muta una lettera e muterai anche la materia. È la storia del Golem del ghetto di Praga: il Golem riceve la vita o subisce la morte quando il rabbino cambia una sola lettera nel sigillo che porta impresso in sé”.

Voglio partire da qui, da queste parole di Edoardo Camurri scoperte sfogliando il Foglio.

camurriLa natura performativa del linguaggio ha radici antiche, persino ancestrali, tanto quanto l’affermazione del potere nella società. Se è con la scrittura che inizia la storia, allora la politica è preistoria e la parola – ma anche il rituale, il simbolo – il suo medium.  Il potere è taumaturgico: si afferma per lasciare il segno, per cambiare la realtà secondo il suo volere. Così come il re trasforma le cose del mondo col tocco di una mano, il rivoluzionario cerca di tagliarla quella mano, per imporre la sua realtà. E così va la storia del mondo…

Nel corso dei secoli, la politica ha sempre escogitato trucchi per farsi riconoscere, per rappresentarsi come volere di Dio o come volere del popolo. Si arriva poi a un punto in cui la competizione per  il potere si fa costitutiva: le parti in conflitto si riconoscono a vicenda e la categoria di avversario – per secoli osteggiata e repressa- diventa legittima. La dicotomia insita nel conflitto appare plasticamente,  allorché i rivoluzionari francesi del XVIII secolo arrivano a sedersi in Parlamento a fianco dei conservatori. Questi a destra, quelli a sinistra.Delacroix-rivoluzione4a-e1550468946938

Ha allora inizio una lunga storia democratica, fatta di incontri, scontri, identità, appartenenze e opinioni. Destra e Sinistra riflettono originariamente due diverse posizioni rispetto al valore dell’uguaglianza e si fanno interpreti, nel corso del Novecento, del conflitto ideologico tra liberalismo e socialismo, quando la lotta di classe tra capitalisti e operai era la la frattura sociale a più alta salienza politica.

Oggi si sente spesso dire che destra e  sinistra non esistono più. Con il recedere del conflitto di classe accade che, da una parte, gli operai non votino più per i partiti di sinistra e, dall’altra, che partiti di destra si schierino su posizioni avverse al capitalismo. Ma, al di là della sostanza, e ai fini del nostro discorso, sul senso della dicotomia politica più longeva e fortunata della storia politica andrebbe potenziata l’interpretazione nominalista, secondo la quale destra e sinistra non sarebbero altro che due scatole da riempire con messaggi politici diversi a seconda del tempo e del contesto.

Due codici linguistici, quindi; ad uso e consumo di politici, media e cittadini per orientarsi nello scenario politico della competizione, nel quale le due categorie opposte assolvono anche alla fondamentale funzione di identificazione in un “noi” e in un “loro”.

[Continua]

Se l’argomento vi interessa, condividete e rimane in contatto per la seconda parte.

A presto, Murray.

[CHIARA SFORNA PER DETTI E FUMETTI – sezione COMUNICAZIONE DELLA POLITICA – Articolo del 12 maggio 2020]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE PAROLE AL POTERE – La nuova rubrica di politica di MURRAY per DETTI E FUMETTI

 

f984f800-bbf0-430b-916c-16c0e462907cCiao Amici mi chiamo Chiara Sforna e mi occupo di politica, accademicamente e professionalmente. Nel cuore ho il Milan, la poesia di Eliot e qualche angolo di Mediterraneo. Penso spesso di essere fortunata, perché sono nata  in Umbria, dove vivere è essenziale e tornare è rassicurante.

La mia mission? Attraverso Murray vorrei parlarvi del potere delle parole… o delle parole del potere! In una realtà sempre più mediata, scopriremo quanto conta la comunicazione nelle relazioni tra politici, media e cittadini.

Il nome è un tributo a Murray Edelman, politologo statunitense noto per i suoi studi sul linguaggio come risorsa politica. Quando l’ho scelto ho pensato alla libertà, che per fortuna – o per conquista- noi donne oggi abbiamo di scegliere lo pseudonimo che vogliamo.

LA RUBRICA LE PAROLE AL POTERE

Murray fa lo spin doctor, uno che si dice esperto dello spin, il colpo decisivo.

I suoi clienti sono perlopiù i politici, di qualsiasi rango e tipo, dai veterani a quelli di primo pelo – destra, sinistra, centro. Tutti diversi, ma tutti con le stesse identiche necessità: devono rendersi visibili per diventare pienamente “politici”, per accedere alla polis, e al tempo stesso hanno bisogno di protezione per potervi sopravvivere.

Murray parla spesso di quanto il mondo sia diventato complicato. Lungi dal banalizzare con un malinconico pessimismo, il nostro spin doctor sa che le complicazioni sono dovute al fatto che sono sempre più gli attori disposti a mobilitarsi per conquistare – o influenzare- il potere.

Più attori, più competizione, più strategie comunicative. Perché per affermarsi come protagonisti, in una realtà essenzialmente mediata dai mezzi di informazione, la buona comunicazione diventa una risorsa imprescindibile. E va da sé che per i politici la sopravvivenza pubblica dipende da  una strategia di comunicazione con un preciso scopo: la rielezione.

Vedremo allora come linguaggi, discorsi, rituali e simboli, se sapientemente maneggiati, possono

divenire veri e propri strumenti nelle mani del potere per influenzare la percezione presso l’elettorato e l’opinione pubblica.

Murray ci mostrerà quanto a destra e a sinistra ci si riconosca in determinate parole, per poi posare lo sguardo sulla Prima Repubblica, e sull’evento comunicativamente più saliente e drammatico, il rapimento di Aldo Moro; ci porterà anche negli Stati Uniti, dove tutto ebbe inizio; scopriremo come in tempo di guerra le parole possono anche stabilire chi vince e chi perde.  Sull’attualità, Murray vorrà oltretutto renderci consapevoli delle contraddizioni più forti: districarsi nel reticolo di parole del web sarà la chiave.

Che altro dire se non… A presto!

[Chiara Sforna per DETTI E FUMETTI -sezione Comunicazione della della Politica -articolo del 22 aprile 2020]