Cari lettori di Detti e Fumetti, la regista Gloria Luce Chinellato, torna di nuovo a teatro con la sua Compagnia Gli Stupefatti, con lo spettacolo “La Ressa Dei Conti”. Scritto da Enrica Corradini.
W, Bentornata Gloria Luce, allora raccontaci di questo nuovo progetto, scritto da una nostra vecchia conoscenza: Enrica Corradini, tua madre. [vedi Detti e Fumetti – sezione Teatro – articolo del 15 agosto 2019]
G.L. Grazie Willy, si dal 9 dicembre torno in scena con la mia compagnia. Sono emozionata e spaventata insieme. Emozionata perché chi mi conosce sa quanto mi renda felice il rumore dei passi su quelle travi di legno, l’odore che si respira dietro al sipario, le voci del pubblico, i bisbigli dietro alle quinte, l’entusiasmo del gioco e l’adrenalina del “chi è di scena”. Spaventata perché dopo quasi due anni di stop forzato tornare in un teatro al chiuso, fatto di persone, di luci e di ombre mi terrorizza e galvanizza insieme. Ci verranno a sostenere nonostante il Covid? Avremo il nostro pubblico? Riusciremo anche questa volta ad uscirne soddisfatti? Esiste ancora qualcuno che va a teatro? Non lo so… ma spero veramente di sì. Quello di cui però sono certa è che Dal 9 al 12 dicembre 2021 torno in scena con la mia compagnia. Torno in scena con uno spettacolo in cui credo. Torno in scena con una squadra che ormai è più una famiglia. Torno in scena…e torno a respirare perché il teatro mi è mancato come l’aria.
La storia si svolge in un silenzioso paese ai confini con la Svizzera quattro strani personaggi intrecciano la propria vita intorno alla misteriosa morte di Amir, un venditore ambulante. La baronessa Pollovicini, accompagnata da Rocco, il suo ambiguo maggiordomo, nasconde un segreto che il ragioniere Bernasconi, uomo mite ma non troppo, avrebbe certamente voluto restasse tale. E invece.
Con il contributo della moglie Agnese, una medium dalle mille risorse, si ritrova al centro di un intrigo dai molti lati oscuri. Quattro personaggi, quattro segreti, quattro inganni destinati a sconfessare l’idea che “ingannare chi inganna non sia un inganno”. Una commedia che non intende fare la morale, ma solo strappare qualche sorriso e qualche riflessione sul fatto che a teatro come nella vita non sempre vincono i buoni. Ma spesso i cattivi perdono.
W.Molto bene, ricordando hai nostri lettori di Detti e Fumetti le date e il teatro, auguriamo tanta merda alla regista Gloria Luce Chinellato e alla sua compagnia!
info:
Dal 9/10/11 dicembre 2021 ore 20.45
Teatro Petrolini Via Rubattino 5
Info e Prenotazioni: +39 3387036899
[DARIO SANTARSIERO per DETTI E FUMETTI sezione TEATRO – articolo del 12 dicembre 2021 ]
Cari amici di Detti e Fumetti oggi intervistiamo l’attore Roberto Zibetti.
Allora Roberto, sei nato a Summit, 11 marzo 1971 nel New Jersey, da genitori italiani, sei cresciuto a Torino. Nel 1990 debutti in teatro con [Gli ultimi giorni dell’umanità], regia di Luca Ronconi; in seguito lavori anche per il cinema e la televisione. Oltre a lavorare come attore, sei anche regista teatrale. Dopo aver debuttato sul grande schermo, sotto la regia di Francesco Calogero, con il film [Nessuno 1992], lavori con altri registi importanti come: Klaus Maria Brandauer, Bernardo Bertolucci e Giacomo Battiato; con quest’ultimo reciti in [Cronaca di un amore violato 1996], in cui hai il tuo primo ruolo da protagonista.
Tra il 1997 e il 2001 sei tra gli interpreti principali dei film [Il carniere, Radio freccia], regia di Luciano Ligabue, [A casa di Irma], [Non ho sonno], regia di Dario Argento; inoltre partecipi al film [I cento passi 2000], diretto da Marco Tullio Giordana. Nel 1998 debutti in televisione nella miniserie tv [Trenta righe per un delitto], regia di Lodovico Gasparini. Successivamente lavori in altre fiction tv, tra cui: [Distretto di polizia 2 2001], [Incantesimo 6 2003], la miniserie [Attacco allo Stato 2006], regia di Michele Soavi, la serie di Rai 3, [La squadra 8 2007] e [Il commissario De Luca 2008], regia di Antonio Frazzi.
Continui con il cinema con [Pasolini 2014], regia di Abel Ferrara [Shades of Truth 2015], regia di Liana Marabini – Condor Pictures [Ho ucciso Napoleone 2015], regia di Giorgia Farina AFMV – [Addio fottuti musi verdi 2017], regia di Francesco Ebbasta [Cobra non è 2020], regia di Mauro Russo
W. Quando hai capito che volevi essere un attore?
foto di Roberta Krasnig
Ero molto giovane, mi appassionai al teatro durante gli anni del liceo. Mi piaceva imparare a memoria testi e poesie. Leggevo, appassionandomi molto, le biografie degli attori del passato, la Duse, Jouvet, Copeau, Stanislavskij. Facevo una scuola di recitazione il pomeriggio e tutti gli stages che mi capitavano a tiro, in Italia e all’estero. Successe poi tutto molto velocemente. Prima Ronconi, poi il Teatro dell’Elfo dove feci il mio primo protagonista nel Risveglio di Primavera. Con Il Campiello di Strehler al Piccolo, mi trovai a recitare addirittura nella storica sala dell’Odeon a Parigi. Ricordo l’effetto che mi fecero quei camerini che sembravano delle suites d’albergo, coi divani di velluto rosso su cui riposarsi. Dai 19 anni ero praticamente sempre in tournée d’inverno e sul set d’estate. A 26 anni girai Io Ballo da Sola con Bertolucci e un cast internazionale. Furono anni intensissimi e mi fu evidente che quella sarebbe stata la mia strada.
W. in Cronaca di un amore violato 1996, hai il tuo primo ruolo da protagonista cosa hai provato?
foto di Roberta Krasnig
Avevo 23 anni, era il 1994; non fu facile trovare il giusto distacco da un personaggio così complesso e da una storia molto dolorosa. Giacomo Battiato seppe guidarmi con grande delicatezza e attenzione ed io gli fui molto riconoscente. Col tempo, grazie all’esperienza e alla tecnica, si impara che anche le più nascoste e profonde contraddizioni dell’animo umano possono e devono essere raccontate da un attore in modo molto intenso ma restando consapevoli che si tratta di un gioco, seppur con contenuti a volte drammaticamente seri. E’ ad esempio il caso del personaggio di Massimo Giuseppe Bossetti che interpreto nel film Yara di Marco Tullio Giordana, che uscirà in autunno su Netflix.
W. Passare dal teatro alla televisione cosa ha comportato?
foto di Roberta Krasnig
In realtà per quanto mi riguarda il gesto tecnico di recitare non è diverso, che si tratti di televisione, di cinema o di teatro. Semmai è una questione di dimensione. In televisione le accortezze da tenere presenti sono semplicemente diverse e riguardano direi soprattutto la capacità di mantenere concentrazione e divertimento pur tra mille variabili. La macchina da presa è uno spettatore esigente ed implacabile, coglie anche le minime sfumature. Spesso i ritmi televisivi sono molto veloci e raramente si fanno delle vere prove: bisogna dunque arrivare preparatissimi per “giocare” al meglio con i colleghi e il regista fin dal primo take. Come quella del palco, a me piace molto l’atmosfera del set ed ho grande ammirazione per il lavoro di tutte le maestranze, dunque il passaggio di cui mi chiedi mi è sempre risultato molto naturale, ogni nuovo lavoro mi sembra un’occasione di crescita.
W. Roberto Zibetti regista, ce ne vuoi parlare?
foto di Roberta Krasnig
Nel 1996 ho fondato una compagnia teatrale con altri colleghi, si chiamava ‘O Zoo No, con cui ho prodotto, diretto o co-diretto numerosi spettacoli proprio con l’obiettivo di imparare la complessa arte della regia teatrale, partendo dagli assunti della ricerca novecentesca, che riguardano di base un approccio collettivo alla creatività. Non è facile mettere insieme le grandi individualità che contraddistinguono il mondo artistico, ma quando ci si riesce i risultati sono a mio avviso strepitosi. Ho diretto un cortometraggio Green (Acerbo), girato in 16mm, mischiando membri della mia famiglia e attori professionisti: dirigere un set è un’esperienza magica ed esaltante, anche se spesso faticosissima. Più recentemente ho messo in scena dei lavori di poesia da me interpretati: La Gerusalemme Liberata del Tasso in versione pop-rock ( Gerusalemme Unplugged) con la musica dal vivo del chitarrista Giorgio Mirto accompagnato da Celesete e Placido Gugliandolo dei Moderni; lo scorso maggio al Cafemuller di Torino “Una luce nella selva oscura”, il primo canto dell’Inferno di Dante ambientato in un affascinantissimo paesaggio sonoro, opera di Raffaele Toninelli. Se vi interessa, quest’ultimo lo trovate on demand sulla piattaforma niceplatform.eu, corredato da un’intervista sul mio percorso di attore.
W. Il teatro che ruolo ha nella società?
Il teatro per la società ha il ruolo di uno specchio. E’ lo stesso anche per il cinema e per tutte le nuove tecnologie di rappresentazione, che vanno moltiplicandosi esponenzialmente per numero e tipologia. Anche i social network sono uno specchio, anche se certo molto caleidoscopico e un po’ folle. Il teatro, essendo uno spazio concreto, a cui si può accedere fisicamente, con dei corpi vivi da guardare e percepire, rende ancora più esplicito il suo essere una terra di frontiera, un luogo ‘altro’ dove guardare a noi stessi e ai nostri comportamenti. Il buio e il silenzio che regnano su un palco prima dell’inizio di una rappresentazione ci riportano ad una certa ritualità che, se accortamente corredata di bellezza e poesia, può essere di grande aiuto a farci sentire vivi in mezzo ai nostri simili in quest’epoca sempre più frenetica, individualistica e virtuale.
W. Di fronte ad un gruppo di giovani attrici e attori cosa consiglieresti?
Mettetevi insieme e sperimentate il più possibile. Se da un lato è importante essere consapevoli della propria originalità e del proprio talento, alla fine è nel confronto con l’altro da sé che questa originalità trova il terreno più fertile per crescere e brillare. Lavorate sodo al vostro percorso individuale ma mantenete curiosità e affetto per ciò che sta fuori da voi. Le nuove piattaforme televisive offrono infinite e preziose possibilità di lavoro e di carriera, che è giusto ricercare, ma l’arte della recitazione richiede tempo e volontà di approfondire. Fate una buona scuola e mantenetevi umili e desiderosi di apprendere, mettendovi in gioco senza paura appena ne avete occasione.
W. Il tuo sogno nel cassetto?
Interpretare un musicista classico in un film o una serie.
W. Bene caro Roberto, grazie anche a nome die lettori di Detti e Fumetti, per questa interessante chiacchierata
[DARIO SANTARSIERO PER DETTI E FUMETTI – SEZIONE CINEMA – ARTICOLO DEL 7 SETTEMBRE 2021]
Cari amici di DETTI E FUMETTI oggi abbiamo con noi IMMA PIRO.
Allora Imma, sei nata a Napoli 8 dicembre 1956 Hai esordito nel cinema nel 1974 nel film di Sergio Corbucci “Ilbestione”, accanto a Giancarlo Giannini. Nello stesso anno hai recitato come attrice protagonista nel film di Vittorio Caprioli “Vieni, vieni amore mio”. Tra gli altri film che hai interpretato “La mazzetta” con Nino Manfredi, “Ecco noi per esempio”, con Adriano Celentano, “Fontamara” con Michele Placido e molti altri.
Nel 1992 nel film di Aurelio Grimaldi “La ribelle” interpreti la madre siciliana di Penelope Cruz. Negli anni novanta vieni chiamata a interpretare un film in Germania: “Tchass”, una coproduzione svizzera-austro-tedesca per la regia di Daniel Helfer, al quale fa seguito “Slaughter of the cock”, pellicola girata tra Cipro, Dubai e Damasco sotto la direzione di Andreas Pantzis accanto a Seymur Cassel e Valeria Golino. Sei spesso tornata al cinema lavorando in pellicole come “Viva l’Italia” di Massimiliano Bruno. Nel film di Nanni Loy “Scugnizzi”, presentato a Venezia in concorso nel 1989.
Alla fine degli anni settanta hai debuttato in televisione con la regia di Citto Maselli nello sceneggiato a puntate “Tre operai” 1978, a cui sono seguiti vari lavori sulle reti Rai e Mediaset tra cui: “Donne armate” di Sergio Corbucci, “Compagni di scuola” di T. Aristarco e “C. Norza”, con Massimo Lopez e Riccardo Scamarcio, “Un difetto di famiglia” con Lino Banfi e Nino Manfredi, “Il capo dei capi” per la regia di Alexis Sweet e Enzo Monteleone e molti altri.
Nel 1981 hai debuttato in teatro con Eduardo De Filippo in “La donna è mobile”, rimanendo fino al 1987 accanto al figlio Luca nel ruolo di prima attrice.
Hai lavorato nel 1982 con e sotto la direzione di Carlo Cecchi in un testo di Anton Cechov: “Ivanov”, con Anna Buonaiuto. Con Sergio Fantoni nella stagione teatrale 1988-89, in “Purché tutto resti in famiglia” una black comedy di Alan Ayckbourn. Con Nello Mascia, sotto la direzione di Maurizio Scaparro, hai interpretato in veste di protagonista il ruolo di Clara in “Fatto di cronaca” di Raffaele Viviani, debuttando nel 1987 al Festival di Spoleto: lo spettacolo, sempre per la regia di Scaparro, fu ripreso da RaiDue nel 1992 per la trasmissione “Palcoscenico 92”.
Nel 2005, sotto la direzione di Franco Però hai interpretato “Adelaide” di Fortunato Calvino al teatro Nuovo di Napoli. Per la tua interpretazione ti sei aggiudicata il premio “Girulà” 2006. Da ricordare anche la tua interpretazione nel ruolo di Amalia Iovine nella messa in scena di Francesco Rosi, dopo ben 18 anni accanto a Luca De Filippo nella stagione 2005-2006, “Napoli milionaria”, conquistando nel 2007 il premio intitolato a Salvo Randone. Tanti ruoli da comprimaria in fiction televisive di successo come “Orgoglio”, “Compagni di scuola”, “Il Capo dei capi”, “Assunta Spina”, “Intelligence”, “Il tredicesimo Apostolo”.
Nel 2014 hai partecipato al Festival di Todi, Regia di Enrico Maria Lamanna testo “Vico Sirene” di Fortunato Calvino. Nello stesso anno partecipa al 48h film project con il cortometraggio “L’ospedale delle bambole” di Francesco Felli. Nel 2015 hai curato la regia di un testo di Scarpetta ”O’ Scarfalietto” per un gruppo di giovani dell’Accademia L’Arte nel cuore curandone anche l’adattamento.
W. Quando hai deciso che la recitazione avrebbe fatto parte della tua vita?
L’ho deciso a cinque anni. Vedendo molti film in bianco e nero con mia madre. Quando vedevo gli attori chiedevo a mia madre se li conosceva E lei mi rispondeva che avevano fatto la scuola insieme. Oppure mentre nel film si stavano baciando, gli chiedevo se si baciano veramente. Mamma rispondeva che avevano lo scotch sulla bocca. Mia madre che da giovane era molto bella, cantava mentre suo fratello suona. Io la sentivo cantare mentre si esibiva per gli amici e i parenti con una gestualità che oltrepassava la quotidianità, aveva le movenze di una attrice. Io ero talmente affascinata da mia madre che ho iniziato a mettermi davanti allo specchio e provare le sue scarpe con i tacchi a spillo, mi truccavo con l’Eye-Line e con le pinzette tiravo su le ciglia. Ed da qui che parte la mia passione per la recitazione. Sono salita per la prima volta sul palcoscenico in una discoteca per adolescenti, siamo negli anni ’70, c’era un concorso di bellezza dove ho partecipato costretta dai miei cugini; ed ho vinto una coppa d’argento e un mazzo di fiori. La seconda volta è successo l’anno dopo, mi hanno fermata sull’autobus per fare una sfilata al teatro Mediterraneo di Napoli e quando sono salita su quel palco ho capito, non so perché, che ci sarebbe voluto del tempo per farmi scendere. Devo dire che questo mestiere mi ha salvato la vita, perché essendo io una scapestrata, dovevo stare attenta al mio fisico, non potevo farmi male. Insomma ho scelto il mestiere che mi piaceva. Avevo studiato lingue per il turismo, l’unica raccomandazione nella mia vita che ho avuto, sempre negli anni ’70, è stata quella per entrare come hostess all’Alitalia. Ricordo che avevo appena girato cinque giorni nel film di Giancarlo Giannini, e alla persona che mi voleva raccomandare come hostess all’Alitalia, ho risposto che non mi interessava perché volevo fare l’attrice; non gli ho detto forse farò il cinema, ero veramente convinta di essere un’attrice. Questo è un mestiere che ti da grandi ansie, perché se non sei una star, se non sei arrivata e non sai cosa farai dopo domani, pensi che tutto sia finito, in realtà rallenta ma poi ricomincia. E quando si complimentano con me, mi confermano che ho scelto la strada giusta; pur vivendo con tutte le mie insicurezze che mi aiutano a fare sempre meglio. Ed ora che sono passati più di quarant’anni sono molto felice di aver intrapreso questa carriera.
W. L’esordio nel ‘74 al fianco di Giancarlo Giannini, ce ne vuoi parlare?
Il primo incontro tra me e Giancarlo Gianni è stato a piazza dell’Aracoeli negli uffici della Champion che era la produzione di Carlo Ponti. Oltre a Giancarlo Giannini c’era anche Sergio Corbucci. Io mi sono presentata una sera d’inverno, senza cappotto con una gonna una camicetta ed un maglione traforato come andavano di moda a quel tempo, ero letteralmente congelata. Ricordo che subito dopo la porta d’ingresso la parete era tappezzata con le foto della Loren e a dire la verità mi ha portato bene, perché Giancarlo si è rivolto a Sergio Corbucci e gli ha detto che doveva prendermi nel cast, perché gli piacevo e gli ricordavo la Loren da piccola. Ed eccomi qua.
W. Sul tuo cammino c’è la televisione, che ha aperto le sue porte con Alberto Lattuada, in che modo ha arricchito la tua carriera?
Il mio esordio in televisione è stato nel ‘76 in bianco e nero su Rai2 con Il Rotocalco “Odeon tutto quanto fa Spettacolo”. Lattuada è stato importantissimo per me, lo avevo visto per un film qualche anno prima, si era ricordato di me, e mi ha chiamato.
W. Non sbaglio nell’affermare che lavorare con Eduardo De Filippo ha lasciato nel tuo cuore un segno profondo
Io credo che la disciplina forte, grossa, importante, l’ho acquisita con Eduardo. Vederlo tutti i giorni, alle prove per quattro anni nei cinque spettacoli che ho fatto con lui non sono pochi. Eduardo aveva problemi con il cuore e non si provava dieci ore al giorno, si provava alcune ore ma erano prove intense interessantissime, di cui mi ricordo benissimo. Da poco sono usciti due libri, prima a Napoli con l’inserto di Repubblica di maggio, per i centoventuno anni dalla sua nascita e c’è anche una mia testimonianza, tra i tanti che hanno lavorato con lui. Mi sono riletta e mi sono commossa. Il giornalista Giulio Baffi che ha scritto la biografia, conosceva Eduardo e non solo ha chiesto la testimonianza degli attori ma anche quella della costumista, dell’attrezzista, in una parola tutte le maestranze che hanno lavorato con e per Eduardo. Una cosa molto bella.
W. Da insegnante come, ti poni nei confronti dei tuoi allievi?
Ho capito questo, non fare la signorina Rottermeier, altrimenti non si arriva al cuore e alla mente dei ragazzi. Quando mi sono messa sui trampoli, ho visto il loro sguardo cambiare. Devi essere si insegnante dando o migliorando le loro nozioni, cercando però di far passare l’amore per questo mestiere, perché se non vi innamorate non lo potete fare. Però se questo lo dici da persona adulta della mia età, arriva sempre un po’ come una roba pesante. Mentre io cerco di veicolare questo messaggio con la comicità
W. Il tuo sogno nel cassetto?
Stare bene, avere una buona memoria fino alla fine dei miei giorni e stare sulla scena nella vita come nel mio lavoro ancora a lungo. Perché tanto noi siamo avvantaggiati possiamo fare i vecchietti. Sempre se la salute e la memoria ci aiutano e soprattutto continua l’amore per questa carriera, altrimenti ci godiamo la meritata pensione
W. Bene cara Imma, grazie anche a nome dei lettori di Detti e Fumetti per questa piacevole chiacchierata
[Dario Santarsiero per Detti e Fumetti -articolo del 19 giugno 2021]
Cari amici di DETTI E FUMETTI oggi abbiamo intervistato GIORGIO DE FINIS, il direttore del MUSEO DELLE PERIFERIE A TOR BELLA MONACA e con lui abbiamo tirato le somme della manifestazione appena terminata IPER, EDIZIONE 2021.
Prima di farci quattro chiacchiere con Giorgio ecco a voi una breve presentazione
W. Nato nel 1966, sei antropologo, giornalista, filmmaker e fotografo, artista, oltre che autore di libri e contributi scientifici. Tra il 2011 e il 2012 inventi il MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia, un museo abitato nello spazio occupato di via Prenestina 913. Dal 2018, per due anni, dirigi il Museo di arte contemporanea di Roma con il progetto sperimentale MACRO Asilo. Conclusasi questa esperienza, se ne apre un’altra, dirigere il Museo delle Periferie inaugurato meno di un anno fa a Tor Bella Monaca.
W: L’esperienza del Macro Asilo cosa ti ha lasciato?
GdF: Il MACRO Asilo è stato un progetto unico nel suo genere. Mi ha lasciato la convinzione che un altro modo di vivere la città (e il museo) sia possibile, e che una città libera, collaborativa, plurale, aperta, autogestita e pubblica non è affatto una utopia o peggio una follia, come qualcuno erroneamente crede o vorrebbe farci credere. Rimane anche un po’ l’amaro che questa straordinaria esperienza sia stata interrotta bruscamente. Ma io credo di essere costretto ad abitare temporaneamente delle crepe…
W: Perché scegliere la periferia?
GdF: Il mio biglietto da visita per la direzione del MACRO è stato un progetto realizzato in periferia, nel quadrante di Roma Est. Mi sento di dire che Roma è la più interessante città europea, in ragione delle contraddizioni e dei conflitti che la attraversano che sono le contraddizioni e i conflitti delle grandi metropoli non occidentali… a Roma sono arrivati, prima che altrove, i “problemi” che dovranno affrontare tutte le capitali se non si inverte la rotta imposta da una globalizzazione che crea sempre più disparità, rottamando chi rimane ai margini di quella che Verga avrebbe definito la fiumana del progresso.
PH CREDIT: il dito puntato al cielo è di Fabio Moscatelli
W: I tuoi studi di antropologia ti hanno aiutato in questa scelta?
GdF: L’antropologia si occupa degli umani e oggi gli umani sono per il 50% + 1 urbani.
W: Dal 21 al 23 maggio Nel Teatro di Tor Bella Monaca si è svolto il primo Festival delle Periferie che ha coinvolto con spettacoli e dibattiti non solo le periferie romane ma anche quelle europee. Come è andata?
GdF: Al di sopra delle nostre più rosee aspettative. In tre giorni la periferia l’abbiamo messa al centro, come vuole l’acronimo scelto per questo museo, il Rif, che è proprio il centro della parola periferia.
W: Ora questa nuova sfida del Museo delle Periferie, ce ne vuoi parlare?
GdF: Un museo delle periferie sembra un ossimoro… cosa c’è da valorizzare in luoghi che per definizione sono brutti, grigi, tristi, dei dormitori o delle piazze dello spaccio? Va da sé che la nostra idea di periferia sia diversa da quella stereotipata e stigmatizzante dei media.
W: Cosa consiglieresti a dei giovani artisti nati e cresciuti in periferia?
GdF: Di non rincorrere i diversi centri (anche paradigmatici) del sistema dell’arte, troppo affollati e stereotipati… L’arte deve confrontarsi con i luoghi che hanno maggiormente la capacità di trasformarsi. Bisogna attingere idee ed energia dove le cose accadono.
W: Il tuo sogno nel cassetto?
GdF: Una città che sia davvero di tutti e un mondo dove gli umani imparino ad essere un po’ più periferia, rispettando le altre forme di vita che abitano il Pianeta. La rivoluzione copernicana non si è ancora realizzata.
W: Bene Giorgio, ti ringrazio anche a nome dei lettori di Detti e Fumetti per questa interessante chiacchierata
[Dario Santarsiero-alias Willy per DETTI E FUMETTI -sezione Teatro – articolo del 3 giugno 2021]
Cara lettori di Detti e Fumetti per la rubrica GIORNALISMO TRA TECNICA E PASSIONE oggi intervisterò Mauro Caldera, fondatore di 361Comunicazione.
W. Allora Mauro, sei di origini piemontesi, la tua carriera da giornalista inizia come insegnante e autore di libri di creatività per poi passare a quella della comunicazione. Fondi nel 2004 la 361Comunicazione, una società dedicata al mondo degli eventi, della cultura, della musica e dello spettacolo.
Collabori con manager nazionali, segui gli artisti emergenti e i big, curando la loro comunicazione e la loro promozione.
W. Quando hai realizzato che saresti diventato un giornalista?
Ho sempre avvertito una grande necessità di comunicare con gli altri in modo semplice cose belle, e interessanti. Una comunicazione culturale alla portata di tutti. Forse la prima esigenza l’ho sentita quando ancora stavo insegnando e da buon creativo quale sono sempre stato, ho aperto ad Asti la prima scuola di giornalismo per bambini; si chiamava “Il Piccolo Giornalista”. Dove educavo, all’ interno di questa struttura, i bambini a raccontare quello che stava loro attorno. Ho capito che quello era il mio ruolo, insegnavo ai bambini, una cosa che poi in realtà avrei voluto fare io
W. Hai affermato “Mi sono ritrovato ufficio stampa mio malgrado!” Ce ne vuoi parlare?
Quando ho iniziato a fare il giornalista per delle testate web e per i settimanali, ho incontrato spesse volte difficoltà a relazionarmi con altri uffici stampa, perché talvolta rendevano difficile il mio lavoro, non mi permettevano con facilità di fare delle belle interviste. Ad un certo punto da giornalista ho cercato di mettermi dalla parte dei miei colleghi, agevolando il loro lavoro e fare in modo che gli artisti che rappresentavo venissero raccontati da più persone possibili. Ho sempre pensato e sostengo che per un l’ufficio stampa sia importante rivolgersi a tutte le testate, dalle più piccole alle più grandi. E’ tutto un percorso professionale, il giornalista che oggi scrive per una piccola testata, se capace, farà una strada che lo porterà ad una testata più grande e ricorderà di quanto io sia stato disponibile nei suoi riguardi, dando così un buon esempio di ufficio stampa
W. Artisti affermati e giovani emergenti, cosa ti lascia ognuno di loro?
Ognuno di loro mi lascia tanto, specie se riesco ad entrare in sintonia con loro. Io con ciascuno di loro mi calo in forma sartoriale, nel senso che adatto a ciascuno di loro un metodo personalizzato, non ho un modello che applico con tutti. Ognuno di loro mi arricchisce, ognuno di loro mi lascia la sua storia, mi lascia ogni volta una esperienza diversa. Mi auguro sempre che l’arricchimento sia reciproco. Anche perché cerco di strutturare con loro un cammino, un percorso che in un certo senso è un po’ didattico, insegnando loro che la disponibilità che danno alla stampa e alla gente, è direttamente proporzionale al loro successo.
W. Seguirli passo, passo nella loro carriera artistica, mi riferisco, in special modo ai più giovani, te li fa sentire un po’ “figli” tuoi?
No, non li sento figli miei ma li sento compagni di viaggio. Nel senso che gli trasferisco la mia esperienza per migliorare il loro percorso artistico e loro trasferiscono a me la loro voglia di comunicare. E’ un incontrarsi a metà strada, è un condividere giornalmente i miei consigli e le loro esigenze. Scegliamo assieme questo percorso non glielo impongo io, di conseguenza è un percorso che viviamo insieme e che loro non subiscono in alcun modo
W. Quando un esordiente vince un festival che sensazioni provi?
Una grande felicità, perché la vittoria è il premio della perseveranza e del grande impegno che hanno messo, della grande passione, della grande umiltà, della grande voglia di imparare giorno per giorno. Quindi per me è una festa e in un certo senso sono doppiamente felice, perché penso di essere riuscito anche nell’intento di far passare ai media e alla gente il pensiero di questi artisti che per me sono persone uniche, il mio ruolo è stato farli emergere e celebrare la loro unicità
W. Cosa consiglieresti a dei giovani artisti che vogliono entrare nel mondo dello spettacolo o dell’intrattenimento?
Di studiare, di fare tanta gavetta, di fare tanta esperienza; di non pensare che i social facciano tutto. Un percorso artistico si costruisce quando si hanno le idee chiare e quando si sa quale strade percorrere. Un percorso artistico non si fa mai da soli ma si fa con delle persone attorno che insieme all’artista credono alla sua missione. La goccia dopo goccia è assolutamente la formula magica, nel senso che passo dopo passo si va lontano, i balzi non aiutano nessuno. Le visualizzazioni, le sponsorizzazioni tutti questi grandi successi acquisiti in poco tempo non portano da nessuna parte, se poi non c’è nulla da raccontare. Consiglio ai giovani di ricercare una propria originalità e di far emergere la loro vera identità e di pensare anche con il punto di vista del pubblico “Cosa voglio portare loro? Quale è il messaggio che voglio portare e che il mio pubblico deve riconoscermi?” Un ultima cosa: consiglio di non comportarsi da vip ma di essere sempre grati e umili al pubblico che è l’unico che permette a questi artisti di calcare il palco, di andare in televisione e magari un giorno di avere successo e di essere riconosciuti
W. Quale è il tuo sogno nel cassetto?
A dire il vero il mio sogno del cassetto potrebbe essere proprio quello che sto vivendo adesso. Forse non ce l’ho e se dovessi avere un sogno nel cassetto sognerei di avere attorno a me tante persone appassionate come sono io, per fare grandi progetti e per cercare di fare sempre la differenza ma non in contrasto con i miei colleghi che stimo e che sono sempre in sintonia e in contatto. Ma creare la differenza significa essere indentificato per un mio stile, quello che io definisco sempre, un stile sartoriale, a volte meno digitale e più analogico. Nel senso che io sono un po’ come le formichine, che adora mettere da parte poco per volta ma costantemente, piuttosto che fare i botti grandi e ritrovarmi dopo con un vuoto davanti a me
W. Bene, caro Mauro, grazie anche a nome dei lettori di Detti e Fumetti per questa interessante chiacchierata
Sono io che ringrazio voi, per l’opportunità che mi avete offerto. Io tendenzialmente non amo molto espormi, preferisco lavorare dietro le quinte ma a volte penso che sia importante comunicare il pensiero, le idee, le intenzioni per incontrare sempre più gente che la pensi come la penso io
[Dario Santarsiero per DETTI E FUMETTI – sezione Spettacolo e Teatro- articolo del 21 maggio 21]
Cari lettori di DETTI E FUMETTI oggi abbiamo il piacere di Fare quattro chiacchiere con il nostro amico Ascanio Celestini. Partiamo subito!
W. Allora Ascanio sei nato a Roma il 1 giugno 1972 figlio di Gaetano Celestini, di professione restauratore di mobili, del Quadraro e di Piera Comin, in gioventù parrucchiera, di Torpignattara. Trascorri la tua gioventù nel quartiere periferico di Casal Morena. Consegui la maturità classica nel 1991. Dopo gli studi universitari in lettere con indirizzo antropologico ti avvicini al teatro a partire dalla fine degli anni 90 collaborando, in veste di attore, ad alcuni spettacoli del Teatro Agricolo O del Montevaso, tra cui [Giullarata dantesca 1996-1998]rilettura dell’Inferno di Dante alla maniera dei comici dell’Arte. In quel periodo entri in contatto con Gaetano Ventriglia e Eugenio Allegri.
Dopo gli anni con il Teatro Agricolo O del Montevaso, insieme a Gaetano Ventriglia, scrivi e interpreti il tuo primo spettacolo, [Cicoria. In fondo al mondo, Pasolini 1998] Lo spettacolo è stato finalista al Teatro della Pergola di Firenze per la rassegna Il Debutto di Amleto.
Nel 2000 scrivi e interpreti [Radio clandestina 2000], spettacolo teatrale sull’eccidio delle Fosse Ardeatine, cui seguono [Cecafumo 2002], montaggio di fiabe della tradizione popolare italiana riviste per un pubblico di ragazzi e adolescenti, [Fabbrica 2002], narrazione in forma di lettera sulla vita operaia, attraverso tre generazioni di lavoratori, dalla fine del XIX secolo alla dismissione industriale degli anni ’80-’90;
Dal 2001 hai scritto e interpretato diverse trasmissioni radiofoniche per Rai Radio 3, tra cui [Milleuno, raccontiminonti buffonti] e quattro edizioni di [Bella Ciao]. Sempre nell’ambito radiofonico, diverse sono state le tue collaborazioni con Radio Onda Rossa. Per diversi anni a partire dal 2006 hai partecipato alla trasmissione di Rai 3 [Parla con me], condotta da Serena Dandini. Quasi tutti i tuoi spettacoli sono diventati libri, in particolare [Storie di uno scemo di guerra premio Bagutta, Premio Fiesole Narrativa Under 40] e [La pecora nera premio Anima] nascono come veri e propri romanzi.
Dal 2003 inizi a portare il tuo teatro in Belgio e Francia.
Sei stato chiamato da Jean-Louis Colinet a partecipare al festival internazionale di Liège con [Fabbrica] e [La Fine del mondo]. Da allora fino al 2020 sarai presente in tutte le edizioni. Michael Delaunoy, Angelo Bison e Pietro Pizzuti del Théâtre le Rideau de Bruxelles portano in scena [Scemo di guerra, La Pecora Nera e Fabbrica Prix du Théâtre per il migliore monologo, 2005].
Il 15 marzo 2010 a Roma inizi le riprese del film [La pecora nera] prodotto da Alessandra Acciai, Carlo Macchitella e Giorgio Magliulo opera prima tratta dall’omonimo libro che è stato anche uno spettacolo teatrale sull’istituzione manicomiale. Il film, in concorso alla 67ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia vince il Premio fondazione Mimmo Rotella e al festival Annecy cinéma italien, durante il quale ti è stato assegnato il Premio Speciale della Giuria. Il film [La pecora nera], vince il premio come migliore interpretazione maschile nella XXVIII edizione del Sulmona cinema Film Festival dicembre 2010, il Ciak d’oro come Miglior Opera Prima (giugno 2011) e al Bobbio Film Festival 2011 il Premio “Gobbo d’oro” al Miglior Film agosto 2011.Inoltre sei candidato come Miglior Regista Esordiente al Nastrod’argento giugno 2011.
I tuoi successi continuano con il libro [Le barzellette 2019] storia di un ferroviere che passa metà della sua vita lavorativa in una stazione terminale e l’altra metà in viaggio per il mondo.
Parteciperai al [festival delle periferie IPER] che si terrà il 21-22-23 maggio 2021 al Teatro Tor Bella Monaca. Prima edizione del Festival delle Periferie che dedica tre giornate al tema della periferia, quella romana ma anche di altre metropoli, con un programma molto vario tra incontri, performance artistiche, videoarte, concerti, film, documentari, lezioni e tavole rotonde per rilanciare, attraverso un’iniziativa festosa e plurale, un’idea di cultura inclusiva e partecipata. Per info: https://iperfestival.it/
W: Cosa o chi ti ha spinto verso la recitazione?
– a vent’anni cominciavo a fare ricerca sul campo, raccoglievo storie. Ma appena quelle storie venivano tirate fuori dal loro contesto, appena diventavano registrazioni da trascrivere e studiare, perdevano la loro vitalità. Era come prendere una persona vive e sezionarla sul tavolo anatomico. Per capire come è fatta dentro devi aprirla e, inevitabilmente, ti trovi davanti a un cadavere. Il teatro mi sembrava una forma di oralità riprodotta e controllata nella quale tenere vive le storie.
W: la laurea in antropologia ti ha aiutato nel tuo percorso artistico?
– non mi sono laureato. Appena ho avuto l’opportunità di cominciare a lavorare in teatro l’ho fatto senza esitare.
W: Essere nato e cresciuto in periferia quanto ha contribuito al tuo impegno nel sociale?
– in occasione di un congresso del PCI nel ’49 Pasolini scrive che “in Italia la cultura è ancora «borghese», poiché la società è borghese”. Settant’anni dopo è cambiato tutto, ma non è cambiato niente. La cultura intesa come “insieme delle cognizioni intellettuali (…) acquisite attraverso lo studio” è tutt’ora profondamente borghese. Ma, sempre per citare Pasolini, “il letterato è disposto a tradire la sua classe sociale” se è un intellettuale moderno che ha preso coscienza della propria responsabilità storica. Tenersi lontano dall’habitat nel quale la borghesia trova le condizioni ambientali favorevoli al suo sviluppo è certamente un incentivo per tenere sveglio il proprio impegno politico.
W: Nei tuoi monologhi la sofferenza umana è travestita con un velo di ironia, ce ne vuoi parlare?
– non voglio raccontare la sofferenza umana, ma la condizione umana. Una cornice molto più ampia.
W: La globalizzazione è stata un fallimento o qualcosa si può ancora salvare?
– gli uomini sono riusciti a essere delle persone complesse anche nei campi di sterminio. Nemmeno Auschwitz è riuscito a ridurre l’uomo a una macchinetta telecomandata. L’uomo non si perde mai del tutto.
W: Nello spot di presentazione di IPER il Festival delle periferie che si terrà dal 21-22-23- maggio 2021 al Teatro Tor Bella Monaca, proclami con un megafono mentre giri in macchina: [Che le periferie non sono Grigie! Non sono Tristi! Non sono un Dormitorio!] Cosa sono allora?
– le classi dirigenti della città ignorano le periferie. Sia nel senso che le abbandonano, sia nel senso che non le conoscono. Tuttavia le periferie sono dispositivi eccezionali. Non dobbiamo farci influenzare dall’ignoranza delle classi dirigenti.
W: Recitare per il sociale ha ancora un senso e perché?
Negli anni ’50 gli intellettuali del PCI sostenevano che tra cultura e politica bisognava compiere una scelta. Il solito Pasolini sosteneva “invece che il dovere è porsi il problema di una scelta, e non è detto che tale problema possa avere una soluzione: può ridursi o farsi dramma – non problematicità pura, ma dramma, di sentimenti, psicologico”. Non è detto che l’intellettuale debba sposare una battaglia. Però non può ignorare il problema.
W: Quale è il tuo sogno nel cassetto?
– non si capisce dalle risposte? È fare uno spettacolo su Pasolini
W. Grazie Ascanio a nome dei lettori di DETTI E FUMETTI e a presto!
-Ciao, grazie a voi ci vediamo all’IPER, il Festival delle Periferie!
[Dario Santarsiero per DETTI E FUMETTI – sezione Teatro e Spettacolo – Articolo del 18 Maggio 2021]
INFORMAZIONI Iper – Festival delle Periferie
A Roma dal 21-23 maggio 2021
vi segnalo una bella iniziativa che prenderà vita al Teatro di Tor Bella Monaca da venerdì 21 a domenica 23 maggio dalle ore 10 alle ore 21 Festival promosso dal Museo delle Periferie, Azienda Speciale Palaexpo nell’ambito di Roma Culture.
Prima edizione del Festival delle Periferie che dedica tre giornate al tema della periferia, quella romana ma anche di altre metropoli, con un programma molto vario tra incontri, performance artistiche, videoarte, concerti, film, documentari, lezioni e tavole rotonde per rilanciare, attraverso un’iniziativa festosa e plurale, un’idea di cultura inclusiva e partecipata.
Perché come recita Ascanio Celestini: “ Le periferie, non sono grigie, non sono tristi, non sono un dormitorio!”. Le periferie, hanno molto da dire, sono una fucina di creatività e di esperienze che vanno ben al di là del disagio che certamente esiste ma che non è l’unica realtà presente. Esistono anche le voci di artisti nati e cresciuti in questo ambiente suburbano, che del disagio ne hanno fatto un cavallo di battaglia. Basti pensare agli artisti della Street Art che da San Basilio a Tor Marancia, passando per Ostiense, il Quadraro, il Pigneto, fino a San Lorenzo e Rebibbia, hanno usato le facciate di palazzi e palazzine, riqualificando così interi quartieri romani. Ma non solo: la Danza, la Musica, il Cinema e il Teatro contribuiscono in modo determinante a questa riqualificazione, che auspichiamo sia un trampolino di lancio per unificare culturalmente tutte le periferie di Europa.
Cari Amici di Detti e Fumetti oggi scambieremo quattro chiacchiere con l’attore Emanuele Salce.
Allora Emanuele, ti sei diplomato in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 1991. Dopo alcune esperienze come regista di documentari per Videosapere ed il Dipartimento Scuola Educazione della Rai, sei stato assistente alla regia di Dino Risi, Ettore Scola, Marco Risi, Livia Giampalmo e Pasquale Squitieri, apparendo occasionalmente come attore [Concorrenza sleale, Le barzellette].
Negli anni 2000la sua attività, nel cinema [Colpo d’occhio] [Il padre e lo straniero], in televisione e, soprattutto, in teatro si è intensificata, sia come interprete [La parola ai giurati], [ La baita degli spettri, Riccardo III, Il topo nel cortile] ed anche come autore: [Mumble, Mumble confessioni di un orfano d’arte] presentato per la prima volta al Teatro Cometa Off di Roma nel 2010, e poi replicato nelle stagioni successive con successo sempre crescente, con il critico Andrea Pergolari come co-autore, racconti, con i moduli del paradosso e del grottesco, la tua condizione di orfano di due padri artistici: Luciano Salce e Vittorio Gassman .
Nel 2009, sempre insieme a Pergolari, hai raccontato la figura del padre Luciano a vent’anni dalla scomparsa nel volume [Una vita spettacolare] e nel documentario [L’uomo dalla bocca storta], che è stato presentato al IV Festival Internazionale del Film di Roma, al Biografilm di Bologna [2010], al Premio Sergio Amidei [2011] ed ha avuto la menzione speciale come miglior documentario sul cinema ai Nastri d’argento 2010.
Sei socio del Mensa Italia dal 1987.
W. Perché hai deciso di recitare?
E’ stata una necessità. Tardiva poiché avvenuta (consapevolmente) intorno ai quarant’anni e derivante dall’esigenza di doversi mettersi in gioco a trecentosessanta gradi rispetto alla mia vita di uomo prima ancora che di professionista. Prendendo piena responsabilità nel portare la mia consapevolezza allo stato fattivo ed applicato delle mie scelte quotidiane. Sapevo che se non fossi passato di qui, non avrei mai risposto a certe mie domande, dalle quali forse temevo anche di ricevere risposta. Quindi non una scelta consequenziale alla condizione di figlio d’arte, né tantomeno dettata da una qualche pulsione o passione artistica ma, ripeto, umana.
W. Il tuo spettacolo [Mumble, Mumble: confessioni di un orfano d’arte] presentato per la prima volta al Teatro Cometa Off di Roma nel 2010 dopo oltre cinquecento repliche e dieci anni di applausi e apprezzamenti dalla critica nazionale che cosa ti ha lasciato?
Beh, tanto per cominciare è ancora presente, questo va detto. Andremo ancora in scena questa estate e poi in autunno. E mi ha dato tanto. Tutto quello che cercavo, cui accenno nella risposta precedente. E’ stato il tramite attraverso il quale ho trovato le risposte alle mia domande. Mi ha dato ampio modo di mettermi in gioco senza “maschere”, senza veli, senza alibi. Siamo cresciuti assieme si potrebbe dire, acquisendo consapevolezza e conoscenza reciproca nel corso degli anni. Un po’ come avere una sorta di gemello che ti fa da specchio e ti aiuta a crescere in una sorta di onesto e leale confronto quotidiano. E’ stata una montagna da scalare all’inizio, piena d’insidie ma poi, una volta giunto in vetta, ho provato la gioia di un alpinista che ha scalato il K2 a mani nude. E misurarsi con le insidie, anche quelle interiori, è sempre necessario. Arrivare in cima al K2 in elicottero non sarebbe la stessa cosa…
W. Brillante, drammatico, in quali di questi due filoni riesci a dare il meglio di te?
Questo non lo so. Si dice che un attore per essere completo dovrebbe sapersi destreggiare su ambo i fronti con la stessa abilità e naturalezza. Posso dirti che cerco di mettere sempre tutta la mia verità ogni volta che affronto un personaggio, che sia comico o tragico, anche quando apparentemente le sue caratteristiche sono quanto di più distante da me possa esserci. Perché in realtà, anche in piccola parte, dentro di noi ci sono tutti i possibili colori e sfumature dell’umano, tutto sta a cercarle, trovarle e metterle sulla tavolozza.
W.Nella tua carriera oltre al cinema c’è anche la televisione come hai vissuto questa esperienza?
Come un’esperienza. Come un’occasione di misurarmi con me stesso in una forma artistica comunque “sorella” di cinema e teatro. Necessaria al completamento di una formazione artistica ed anch’essa assolutamente funzionale. Più o meno come credo possa essere per un tennista giocare sul cemento, sull’erba o sulla terra rossa.
W. Cosa comporta il mestiere dell’attore?
Di base ha le stesse regole degli altri lavori. E come per gli altri lavori cambia il modo in cui il lavoratore approccia e vive il proprio impegno. Quindi sono le motivazioni, l’ambizione, l’abnegazione, talvolta anche la fortuna ad indirizzare una carriera in un senso piuttosto che in un altro. Ci sono attori che vivono per il proprio lavoro, altri che vivono grazie al loro lavoro, altri che più semplicemente lavorano per vivere. Poi ci sono il talento e la predisposizione, che sono doni, ma che vanno anche e soprattutto allenati e conservati con cura. Per il mio patrigno (V. G.) ad esempio, il mestiere era un assoluto totalitario, che ne implicava anche la condizione di venirne cambiati. E per lui è stato certamente così. Per altri resta un mestiere o anche una semplice passione, un diletto.
W. Sei socio del Mensa Italia dal 1987, ce ne vuoi parlare?
Certo, nulla di compromettente!… Da giovane ero attratto dalle sfide e c’erano questi test di questa associazione di “superintelligenti” a cui ci poteva sottoporre. L’ho fatto che avevo 19 anni, l’ho fallito di pochissimo e mi invitarono a riprovare dopo un anno. E così vi entrai a vent’anni. Ma non sono molto attivo come socio. Debbo dire che sono pessimo in questo senso. Deve essere stata una sfida atta a nutrire solo il mio orgoglio evidentemente.
W. Quale è il tuo sogno del cassetto?
Migliorarmi come essere umano! Fare un buon uso del tempo di cui disponiamo in questa vita. Cercare di apprendere qualcosa di nuovo ogni giorno, mettersi in discussione e cercare di arrivare a coricarsi la sera sereni ed addormentarsi soddisfatti. Cosa che non mi riesce quasi mai ovviamente. Poi forse, dopo 12 anni, scrivere un altro testo da portare in scena.
W. Bene caro Emanuele, ti ringrazio anche a nome dei lettori di Detti e Fumetti per questa piacevole chiacchierata
[Dario Santarsiero per DETTI E FUMETTI – sezione Teatro- articolo del 16 maggio 2021]
Cari lettori di Detti e Fumetti, oggi parleremo con Pino Quartullo di scuole di recitazione oltre che di teatro e cinema.
W. Allora Pino facciamo un breve riassunto della tua vita a beneficio dei nostri lettori. Sei nato a Civitavecchia il 12 luglio 1957. Ti sei laureato in Architettura e diplomato in regia all’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico. Hai conseguito un diploma in recitazione presso il Laboratorio di Esercitazioni Sceniche di Gigi Proietti. Nel 1987 vieni nominato all’Oscar con il cortometraggioExit nella categoria live action, insieme a Stefano Reali. Dal 2000 al 2013 sei stato direttore artistico del Teatro Traiano di Civitavecchia. Hai insegnato recitazione all’ ACT Multimedia, hai fatto molti laboratori molti stage di recitazione. Hai fondato la scuola delle Arti a Civitavecchia.
W. Perché la recitazione?
P. Per me è stata una cosa istintiva assolutamente naturale. Già quando frequentavo l’asilo salivo, sul palcoscenico dalle suore sentendomi magneticamente attratto dalla recitazione.
W. aver conseguito una laurea in architettura ti ha aiutato nella tua carriera di attore?
P. La laurea in architettura è stata molto importante per me, anche perché il mio piano di studi era già finalizzato allo spettacolo. Ho inserito gli esami di scenografia, storia del teatro. La mia tesi di laurea riguardava il progetto di un teatro circolare, con il pubblico al centro e il palcoscenico intorno al pubblico. Aver studiato architettura, mi ha anche insegnato dei codici di progettazione che ho poi ritrovato sia quando scrivo delle sceneggiature o quando devo pensare ad uno spettacolo. Immaginare una scenografia avere delle idee, fare una ricerca storica o di immagini. Per cui l’ architettura è stata fondamentale.
W. Quali responsabilità ha il regista nei confronti degli spettatori?
P. La prima responsabilità che ha il regista nei confronti degli spettatori, è di non annoiarli, di coinvolgerli, di farli pensare, divertendoli o commovendoli ma ancora meglio divertendoli e commovendoli nello stesso momento. Perché si può.
W. Hai sperimentato sia il teatro che il cinema, con quali dei due esprimi più te stesso?
P. Credo che sia con il teatro che con il cinema io sia riuscito ad esprimermi. Quello che cambia naturalmente è il linguaggio; il fatto che il teatro poi purtroppo è effimero non rimane più nulla, per lo meno di quella emozione, di quella esperienza tra esseri umani che si vive nei teatri. Certo anche il teatro può essere ripreso, può essere diretto per l’audiovisivo però, non è mai come viverlo in quel momento. Per quanto riguarda la mia possibilità di espressione con i due linguaggi credo che se un regista o un autore ha qualcosa da dire può farlo in entrambi i campi.
W. nei film: “Quando eravamo repressi” (1992) e “Le donne non vogliono più” (1993) dove hai curato la regia e partecipato come attore oltre aver scritto i soggetti e le sceneggiature, dipingi i protagonisti come dei repressi sessuali nel primo e nel secondo racconti la ricerca da parte di un uomo, di una paternità che sconfina nell’ossessione. Nel 2021 riguardo queste tematiche cosa è cambiato e cosa no?
P. In “Quando eravamo repressi” Raccontavamo della noia tra i giovani in ambito sessuale. Perché potendo farlo già da ragazzi e bruciando le tappe, tutto è già scontato, si è più viziati dalle possibilità che si hanno e quindi rispetto ad allora trent’anni fa è cambiato che le tappe si bruciano ancora più velocemente, c’è più apertura nei confronti degli scambi e il sesso è ancora più libero; pur con tutte le cautele che i problemi di ordine sanitario comportano però, questo bruciare le tappe, questo farlo subito farlo il prima possibile chiaramente ha tolto un po’ di fascino, un po’ di attesa, un po’ di mistero e quindi automaticamente un film sul calo del desiderio ancora oggi sarebbe attualissimo. Per quanto riguarda ”Le donne non voglio più” Anche qui penso che la storia di un uomo che voglia un figlio e non riesca ha trovare una donna sia molto contemporanea. Oggi come venticinque anni fa quando ho fatto il film, ci sono molte possibilità alternative come ad esempio affittare uteri. Una potrebbe venderti l’ovulo, un’altra potrebbe portare avanti la gravidanza. Conosco persone che lo hanno fatto, non soltanto coppie. E quindi quel mondo lì che ho esplorato nel novantatré, devo dire che ancora esiste ed ancora oggi è possibile; all’epoca era un po’ una novità oggi è un po’ più acquisito.
W. hai avuto la possibilità di conoscere e di lavorare sia con Gigi Proietti che con Monica Vitti ce ne vuoi parlare?
P. Gigi Proietti ci ha insegnato che il teatro è un lavoro molto serio, lavorare come attore è un lavoro molto serio ma anche molto divertente e va fatto contemporaneamente con grande serietà senza perdere mai il divertimento. E poi è la fantasia dell’attore che deve avere e che può stimolare quella del pubblico. Con una cassa e degli oggetti Gigi ha fatto vedere al mondo come l’attore possa creare quello che in scena non c’è. Non a caso poi Gigi Proietti ha fondato il Globe Theatre a Roma; ispirandosi a Shakespeare che è stato un grandissimo maestro di come con poco in scena si possa fare molto. Facendo appunto lavorare la fantasia degli spettatori. E poi Gigi non è stato solo il maestro, è stato anche un amico, il mio testimone di nozze, il mio produttore, il mio regista; ma soprattutto l’amico, l’amico più divertente che forse io abbia mai avuto. Monica Vitti l’ho avuta come insegnante in accademia. Anche Monica è stata una grande maestra, anche lei una grande amica; infatti dopo l’accademia, volle che io mi occupassi di un gruppo di ragazzi dell’accademia che lei aveva conosciuto quando ha insegnato, per una trasmissione televisiva che si intitolava “Passione Mia”, dove io e alcuni miei compagni di classe facevamo parte della trasmissione, interpretando delle Sit-Com. Abbiamo cantato io e lei in duetto la sigla di “passione Mia”. E poi Monica e anche Roberto Russo che è il suo compagno e regista della trasmissione, hanno voluto dare più spazio a dei giovani registi tra cui me e nell’ultima puntata, hanno presentato in un cinema dei cortometraggi che abbiamo girato. Io grazie a lei, ho girato il mio primo cortometraggio che poi ha conseguito molti premi e anche una nomination all’Oscar. Il grande insegnamento di Monica è stato quello di dirci che bisogna avere molta tecnica, bisogna essere volendo molto puliti tecnicamente; ma poi bisogna sporcare, poi bisogna lavorare sui propri difetti, perché altrimenti l’attore è solo corretto e rischia di essere senza personalità, un involucro neutro e quindi lei ha fatto l’esempio della sua voce un po’ rauca che all’inizio della sua carriera sembrava poter essere un ostacolo ma che invece è stato il suo punto di forza, la sua caratteristica. Quindi Lavorare sulle proprie peculiarità, sui propri difetti e sulla propria personalità in modo a distinguersi rispetto agli altri
W. Tu e il co-regista Stefano Reali nel 1987 avete vinto diversi premi con il cortometraggio Exit nella categoria live action; cosa ti ha lasciato?
P. Exit è stato uno dei momenti “sogno” della mia vita. Nel senso: tu giri un cortometraggio e poi vinci dei premi, poi vai a Chicago in un festival, poi lo vai a proporre a Los Angeles in un cinema; perché per partecipare agli Oscar bisognava aver vinto un concorso internazionale e noi avevamo vinto la Concia De Oro. Poi bisognava che il film fosse proiettato almeno tre giorni in un cinema di Los Angeles. Noi partimmo con la nostra pizza sotto il braccio alla volta di Los Angeles e lì trovammo un esercente che era pazzo dei vini italiani, delle monete italiane, oltre che del cinema italiano e quindi ci concesse di poterlo proiettare. Dopo alcuni mesi leggemmo un articolo sul Corriere della Sera che parlava del nostro cortometraggio; era ancora proiettato, dopo molti mesi nello stesso locale perché era l’attrattiva di quel cinema e che addirittura Spielberg l’aveva voluto in prestito per mostrarlo ai suoi allievi. E’ stata la prova che a volte i sogni si realizzano; e anche se per un pelo non abbiamo vinto, partecipare alla notte degli Oscar è stato fantastico. Questa esperienza è stata un incentivo a sperare che i sogni si realizzano, non è sempre così facile ma altre volte mi è successo che piccole cose diventassero molto grandi. Ed Exit è stato il detonatore di questa possibilità.
W. Insegnare recitazione è una grande responsabilità, come ti poni davanti ai tuoi studenti?
P. Ho insegnato in diverse scuole. Grazie al fatto di aver frequentato il laboratorio di Gigi Proietti e l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica ma anche la scuola di Giovanni Battista Diotiaiuti sono un po’ esperto in scuole di recitazione; ed è proprio questo che ho insegnato prima di tutto: studiare, ricercare, stare sempre attenti a tutto quello che il mondo dello spettacolo ci offre, e saper trasformare quello che la vita ti da in qualcosa che interessi anche il pubblico. Qualcosa che il pubblico magari ha dentro e che scopre con la poesia, con i film, con gli spettacoli, riconoscendosi in questi. Una cosa che mi hanno insegnato sia Aldo Trionfo [1921-1989 regista teatrale e attore teatrale italiano N.D.E]. che Gigi Proietti, oltre ad imparare naturalmente questa nostra arte, è importante creare dei gruppi, cercando di realizzare dei progetti. Con quelle persone con cui si studia recitazione, si stabilisce un rapporto particolare di fratellanza, come se facendo recitazione, uno ricominciasse a vivere in un altro modo; rimpari a parlare, rimpari a camminare scopri te stesso. Come se gli insegnanti di recitazione fossero dei nuovi genitori. E quindi tra gli allievi si stabilisce un rapporto fraterno che poi continua, ed è ineguagliabile con quello che si può stabilire con altri colleghi nel corso degli anni. Quindi è importante scegliersi i colleghi giusti, per portare avanti imprese, produzioni, cortometraggi, film, spettacoli
W. Il tuo sogno nel cassetto?
P. Negli anni spesso tanti progetti in cui uno crede, spesso verifica che non colgono l’entusiasmo dei produttori, delle istituzioni e quindi pur credendoci molto vengono accantonati. Ne ho tantissimi di progetti nel cassetto, uno a cui tengo di più è un soggetto trattamento scritto con Sergio Leone e con Luca D’Ascanio negli anni ottanta. Sergio Leone venne vedere un mio spettacolo e mi propose di fare un film che lui avrebbe dovuto produrre e quindi andai a casa sua parecchie volte e abbiamo scritto insieme questa storia di una mummia a Roma. Una specie di Horror Commedia ambientata appunto a Roma. E questa sarebbe una cosa bella da riprendere anche per questa “ghiottoneria” per cinefili che è quella di aver scritto una cosa con Sergio Leone
W.Bene caro Pino, ti ringrazio anche a nome dei lettori di Detti e Fumetti per questa piacevole lezione sul teatro.
[Dario Santarsiero per Detti e Fumetti – sezione CInema – Articolo del 26-04-2021]
Cari amici di Detti e Fumetti questa volta scopriamo l’attore -ma anche l’uomo- Massimo Wertmüller, all’anagrafe Massimo Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich
Tra gli altri tuoi ruoli in televisione, quello del commissario Giorgio Pettenella nella serie La squadra, andata in onda su Rai 3 e in replica su Rai Premium. Due delle tue più recenti apparizioni sono quelle nella serie RIS Roma, dove interpreti il ruolo del generale Abrami, e nella serie televisiva 1992 di Sky, nel ruolo di Mariotto Segni. Nel 2021 nella fiction Mina Settembre interpretata da Serena Rossi sei un generale in pensione hai un cane simpaticissimo e sei sempre in contrasto con la madre di Mina.
Nell’ambito pubblicitario sei stato il primo testimonial di Wind nel 1999 e sostieni l’organizzazione Medici Senza Frontiere oltre a diverse cause animaliste.
D. Cosa ti ha spinto verso la recitazione?
M. Mah , direi le rappresentazioni sacre fatte a scuola, al ginnasio. Lì mi ritrovai felice a fare la voce di Jacopone da Todi per le sue Laudi nascosto in uno sgabuzzino della palestra, dove si facevano le rappresentazioni, col naso attaccato alla porta. Tanto è vero tutto ciò che poi, finito l’orario di scuola, avevamo fondato una compagnia che si chiamava “La Pochade” con altri studenti, che provava di notte in un garage spettacoli terribili come “le mani sporche “di Sartre, oppure “Edoardo II” di Marlowe, oppure “Ubu Roi” di Jarry, testi bellissimi ma che in mano nostra facevano dire al mio papà , quando era costretto a venire in cantina , l’ Abaco di Mario Ricci, a vedere una prima di suo figlio, rivolto mia madre, “stasera andiamo a fare questo attentato allo scroto?”….Poi un giorno vidi il “Masaniello” di Armando Pugliese, e mi innamorai anche dei profumi del teatro, visto che era uno spettacolo bellissimo fatto su un mare di sabbia con carri di legno semoventi.
D. Da ragazzo hai fondato insieme ai tuoi compagni di corso un gruppo comico la Zavorra; ce ne vuoi parlare?
M. Che dire? Spesso nella vita non siamo coscienti del momento che viviamo. Come per la Storia, con la “S” maiuscola, il suo senso lo si vede meglio a posteriori e volandoci sopra ad elicottero. Per capire i suoi percorsi, i suoi perché. Io non capii che quello sarebbe stato il più grande mio successo in carriera che avrei mai più rivissuto. Con Rodolfo, Paola, Patrizia, Sherine, Silvio, avevamo raggiunto una complicità pazzesca. E uno sketch, soprattutto con Rodolfo Laganà, poteva nascere davanti al bancone di un caffè…e lo provavamo tanto. Eravamo innamorati di quel mestiere. Fu Antonello Falqui che ci scelse al Laboratorio di Gigi Proietti, la nostra scuola di recitazione. Antonello Falqui fu il più grande e mai più eguagliato ideatore di varietà che sia mai esistito. Ricordo una volta, a fine lavorazione di un 23 dicembre, la voce di Antonello in interfono disse “Buon Natale a tutti meno che alla Zavorra”, liberando tutto lo studio meno che noi. Questo perché non avevamo trovato un finale di uno sketch. Lo trovammo solo alle 23… e buon Natale a tutti. Per farvi capire che fare uno sketch era una cosa seria.
D. Aver interpretato dei ruoli nel cinema sotto la regia di tua zia Lina Wertmuller, cosa ti ha lasciato?
M. Lina è stata un regalo per me come modello di vita. Ho imparato tanto da lei, anche solo guardandola. E poi, ovviamente, perché è stata un genio. Non è che tutti hanno un genio, premiato con l’Oscar, come zia…
Però non ti posso nascondere il peso che si porta ad avere il mio cognome. Si è sempre sotto esame; si pagano tutte le eredità che porta un cognome come il mio. Solleva sempre la curiosità. Vedi, anche oggi, sono costretto a rispondere ad una domanda su questa mia parentela. Niente di male per carità, almeno in questo caso, ma sapendo che siamo in Italia, il fatto che io abbia dovuto non solo realizzarmi ma convincere della mia autonomia, è stata una fatica in più. Per fortuna ad aiutarmi sono arrivati i lavori a cui ho partecipato con altri grandi registi come Magni, Scola, Patroni Griffi, a dimostrare che io sono io indipendentemente dal mio cognome. Ma è stato uno scalino in più, non in meno, da superare….
D. Quale personaggio ti ha dato modo di esprimere tutto te stesso?
M.Tanti, non saprei dirtene uno in particolare …Forse un personaggio che pare costruito su di me è stato senz’altro “Il Pellegrino” di Pier Paolo Palladino a teatro.
D. Cosa è cambiato nel cinema e cosa nel teatro ultimamente?
M.Al cinema oggi mancano i maestri. Quelli di ieri poi erano maestri di vita non solo di cinema. E l’albero di certi stili cinematografici è rimasto senza frutti, secondo me. Se si prende per esempio il cinema impegnato, politico, quello di Petri, o di Rosi, per dirne alcuni, e poi se si prendono altri generi a caso si capisce che un certo cinema e un certo modo di lavorare non c’è più. Non vedo in giro oggigiorno altri Fellini, Leone, Scola, Magni, Monicelli, e potrei continuare… Vedo tante commedie rassicuranti, ma non molti grandi eventi cinematografici, ed è con questi che si scrive una pagina epocale.
Il teatro mi sembra più coriaceo invece, meno in balia dei venti. Certo, anch’esso soffre di un calo forte di gusti e qualità. Forse una certa televisione, in questo, ha le sue responsabilità.
D. Cosa vorresti dire ad un gruppo di ragazze e ragazzi che vogliono fondare una compagnia teatrale?
M. Di provarci senz’altro. Oggi è più difficile, certo, ma nessuno potrà mai dire che non si sia i prescelti, i fortunati che portano a compimento una avventura. Questo è ancora possibile.
D. Noi di DETTI E FUMETTI recentemente abbiamo prodotto dei fumetti per sostenere la Protezione Civile, i medici e il volontariato ( OSVY FIGHT COVID -2020) ; ho visto che anche tu sostieni l’organizzazione Medici Senza Frontiere e diverse altre cause animaliste, ce ne vuoi parlare di questo tuo impegno?
M. Direi solo questo, che l’impegno civico secondo me è rimasto uno dei più grandi sensi che si possano dare al proprio passaggio su questa terra. Rendersi utili è bello, non guardare solo al proprio ombelico è sano, non demandare, non essere ignavi è un nobile atteggiamento che ognuno dovrebbe tenere in questa vita.
D. Il tuo sogno del cassetto?
M.Stare in salute e poter godere sempre di un tramonto, del profumo del mare, della freschezza di un bosco….
D. Bene caro Massimo grazie anche a nome dei lettori di Detti e Fumetti per la piacevole chiacchierata!
[Dario Santarsiero alias Willy il bradipo per DETTI E FUMETTI – sezione Teatro -articolo del 17 aprile 2021]
Ciao amici oggi facciamo quattro chiacchiere con Dario Santarsiero
Ve lo presentiamo e parliamo del suo nuovo libro ma non solo. Si parlerà anche del nuovo canale in abbonamento di DETTI E FUMETTI in cui Dario avrà il ruolo di Speaker insieme a me.
Buona visione!
Se fate click sulla freccia la video intervista inizierà.
Puoi acquistare il libro FARE TEATRO di Dario Santarsiero al seguente link facendo click sul LOGO DI AMAZON
[Gabriella Grifo’ per DETTI E FUMETTI – sezione Teatro- articolo del 17 aprile 2021]
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