Amici di DETTI E FUMETTI, nei giorni scorsi vi abbiamo raccontato del come è nato il progetto MARTA. Trovate tutta la storia da cui è nato QUI.
Prima voglio presentarvi il TEAM del Progetto MARTA a otto mani:
-SOGGETTO: FILIPPO NOVELLI
-TESTI: DARIO SANTARSIERO-FILIPPO NOVELLI
-SUPERVISIONE:STEFANO PANCARI
-DISEGNI:FILIPPO NOVELLI
MARTA, il fumetto che parla di sicurezza e salute ai bambini verrà pubblicato periodicamente su DETTI E FUMETTI e sarà ospite di una rubrica fissa su ROCK’N’SAFE, la webzine che si occupa di sicurezza a 360°.
Ed ora ecco a voi la protagonista della storia, la nostra piccola MARTA, una diecenne peperina che ama ascoltare musica rock e che trascorre il suo tempo libero con gli amici, cercando di toglierli dai guai in cui puntualmente si cacciano. A casa ha un papà simpaticissimo, una nostra vecchia conoscenza, Steo il musicologo, che scrive di musica qui sul nostro blog e che, nel fumetto di MARTA è anche un esperto di sicurezza e quindi non lesina consigli alla figlia.
EPISODIO N.° 1
[FILIPPO NOVELLI per DETTI E FUMETTI -sezione FUMETTO –
Lo guardiamo e diciamo: “Ma dove diavolo sei stato?” [Dave Ghrol]
Il bisogno di ogni essere umano è lasciare il segno in questo breve passaggio sul pianeta che chiamiamo vita. Ognuno cerca di diventare memorabile secondo i propri valori e da fattori della vita che lo spingono: alcuni di noi educano i nostri figli perché siano persone migliori, oppure contribuiamo facendo del bene al prossimo e chi ha più doti lascia ai posteri le proprie opere d’arte. È inevitabile, ciascuno di noi ha un inconscio desiderio di vivere oltre la vita restando nella memoria attraverso le proprie gesta e propri lasciti.
Amo me stesso più di te,
so che è sbagliato ma cosa dovrei fare?
[Nirvana]
Sono trascorsi anche gli anni ’80, nel mondo del rock regnano il metal, l’hard rock, il glam rock e non tutte le rockstar saranno gemme che poi resteranno nella memoria. La cosiddetta generazione X è già qualche anno che sta vivendo una sorta di insofferenza, di angoscia: il mondo sta cambiando con un’accelerazione che sta cominciando a farsi sentire e questa condizione genera un senso di smarrimento. Forse è questo il prologo giusto che ci dà una chiave di lettura a quegli anni ’90 che saranno esplosivi.
Una decade che ci ha regalato i Radiohead, i Placebo, i Muse, ma soprattutto il sound di Seattle etichettato come Grunge. C’è chi dice che Alice in Chains, Soundgarden e Pearl Jam, per citarne alcuni, abbiamo distrutto il rock.
Faccio parte di quella cerchia che, invece, ha goduto di questo tsunami che ha destrutturato tutte le logiche dei precedenti 40 anni, con strafottenza e senza nessun sogno di gloria.
È stato come l’attentato a Kennedy ma in versione musicale…chi c’era ricorderà senz’altro l’istante in cui ha ascoltato la canzone per la prima volta (Smells like teen spirit)…era trascendentale
[Jessica Hopper]
Sebbene non fossero autoctoni di Seattle e non fossero tra quelli che giravano nei club insieme ai Malfunkshun, ai Melvins ed ai Green River, coloro che contribuirono in modo sostanziale a rendere quel movimento un fenomeno mondiale furono loro: i Nirvana. Kurt Cobain, Kris Novoselic e Chad Channing con il loro furgone sconquassato, pantaloni strappati e magliette strusciate arrivavano da Aberdeen, con tappa all’università di Olympia e non pensavano che i loro sogni di fama sarebbe spediti nell’iperspazio all’ennesima potenza. Già di per sé aver questo tipo di ambizioni non era ben visto dalla controcultura di Seattle, del punk rock e dintorni; lassù, nel nord ovest degli Stati Uniti e lontano dallo show business di Los Angeles, New York e Boston, se eri un musicista dovevi accontentarti dei club malmessi del posto.
Era una controcultura che poneva le basi nel post punk e ‘fanculo a tutto ciò che erano soldi e successo, ‘fanculo all’industria musicale e tutto ciò che ruotava attorno. Purtroppo per loro Bruce Pavitt con la sua Sub Pop ci aveva visto lungo e sapeva che ben presto il grunge sarebbe stato un vulcano in procinto di esplodere. Le prime schermaglie si erano già avvertite con i Soundgarden di Chris Cornell, con i Mother Love Bone di Andrew Wood e successivamente con i Pearl Jam di Eddie Vedder. Ma nessuno come i Nirvana scosse il mondo musicale a quei livelli.
La musica è una forma d’arte
che prospera sulla reinvenzione
[Krist Novoselic]
Quando la Geffen li mise sotto contratto erano consapevoli che di fronte avevano un fenomeno che avrebbe potuto addirittura scavalcare la notorietà del crack Guns’n’Roses. Il video di Smells like teen spirit arrivò sul tavolo di MTV ed Amy Finnerty, produttore esecutivo della giovane e seguitissima emittente TV, si giocò la faccia chiedendo di metterlo in scaletta.
Kurt, Kris e Dave Ghrole (nel frattempo Chad era stato cassato) partirono a tutta velocità sfidando l’industria musicale come uno shuttle sfida l’atmosfera per giungere nello spazio. In fin dei conti era quel che desiderava Kurt: una infanzia e adolescenza conflittuale segnata dai disastri familiari pretendeva un riscatto e quel successo sarebbe stata la giusta ricompensa. Questo era ciò che voleva durante il periodo universitario ad Olympia, da cui si era distaccato perché loro rigettavano ciò che era il mondo che odiavano. Kurt, invece, pur avendo lo stesso sentimento contro la cultura del far soldi velocemente (yuppies), della politica reganiana e dell’industria delle major aveva in mente altro: per cambiare le cose dovevi stare dentro al Sistema e cambiarlo dal suo interno. Un po’ come Neo in Matrix per capirci. Contro ogni sua aspettativa, compresa la propria, divenne in breve tempo il Messia di tutta quella generazione che non trovava più punti di riferimento nella Società, quei reietti o supposti tali sparsi qua e là nell’intero pianeta.
La loro musica era un mix micidiale e mai ascoltato: radici di un punk dai ritmi rallentati e accordi semplici, la potenza del metal, ma anche quelle strizzate d’occhio pop che facevano in modo che la loro musica entrasse nella mente.
Ridono di me perché sono diverso,
io rido di loro perché sono tutti uguali
[Kurt Cobain]
Dietro a quel look trasandato e silenzioso, Kurt Cobain nascondeva un genio musicale che molti hanno paragonato a John Lennon. La differenza è che John Lennon ha lasciato il segno nei suoi 17 anni di onorata carriera, così come altri mostri sacri del rock: Kurt Cobain in appena 5 anni è diventato una sorta di divinità che tutt’oggi viene venerata. L’album del successo globale fu Nevermind che li proiettò in tour in tutto il mondo.
Così come Icaro con il suo volo, però, anche Kurt dovette soccombere alle pressioni mediatiche ed il suo atteggiamento dicotomico con la musica. I demoni della sua prima gioventù erano lì e si manifestavano con un continuo dolore allo stomaco e frequenti depressioni. Kurt li combatteva, ma avevo scelto il peggiore degli alleati: Mr Brownstone (modo gergale per chiamare l’eroina) con cui aveva una relazione da tempo. Stessa sorte era toccata alla donna di cui si era follemente innamorato, Courtney Love delle The Hole.
John Lennon aveva diciassette anni di esperienza negli studi di registrazione, Prince trentotto, David Bowie quarantanove. Kurt solo cinque
[Danny Goldberg]
La vena artistica di Kurt Cobain si sciolse di fronte al calore dei suoi conflitti e di quella inaspettata notorietà che fu la causa del suo controverso decesso. Di lui ci rimangono le sue canzoni contenute in appena quattro album di inediti ed un talento bruciato troppo prematuramente di fronte all’oracolo del successo. Mi piace ricordarlo con quel suo sguardo penetrante che, insieme a quel silenzio rotto dal suo rauco sospiro, concluse l’interpretazione di Where did you sleep last night in quella che fu una delle ultime apparizioni in pubblico dei Nirvana con l’Unplugged in New York.
C’è chi lascia il segno come un’orma del proprio piede sulla sabbia e c’è chi come Kurt Cobain ha scolpito la pietra della cultura lasciando il proprio segno per l’eternità.
Io sono STEO e questa è la mia Storia del Rock. Spero vi piaccia. Lasciate i vostri feedback perche’ diventerà un libro. Raccontateci chi è stata la vostra rockstar preferita. Chissà nel prossimo volume potreste trovarla su DETTI E FUMETTI.
Ed ora come di consueto vi lasci tre brani dei Nirvana da mandare come sottofondo della vostra vita.
Non posso cambiare il mondo, ma posso cambiare il mondo dentro di me
[Bono Vox]
Il cambiamento è alla base dell’evoluzione, a volte è una necessità.
Quale forza dovrebbe spingerci a cambiare? Se, qualunque fosse il nostro status, ci imponessimo sempre di cambiare diventerebbe un’ossessione, ma tante volte rompere le catene delle abitudini è un atto di responsabilità verso noi e gli altri.
A volte, nell’ecosistema di abitudini, comportamenti automatici e situazioni che fanno parte del nostro quotidiano, ci sono cose che inconsapevolmente accettiamo, ma che tanto bene non ci fanno. Possiamo pensare ai nostri vizi, fumare per esempio, oppure chi di noi è facilmente irascibile e, ancora, chi ha grandi potenziali ma rimane lì dov’è perché in qualche modo “ha paura” a fare quel passo che permetterebbe di esprimerli.
Il rock ha rappresentato e rappresenta un simbolo della rottura dello status quo ed esso stesso si è reinventato nel corso dei decenni.
Siamo partiti nel viaggio con il rock’n’roll di Elvis Presley per arrivare al blues rock psichedelico dei The Doors un decennio dopo, stravolto a sua volta dal punk dei Ramones negli anni ’70.
Il rock non ha subito una metamorfosi solo sulla base del periodo storico e grazie al gruppo emergente di turno. Esistono alcune rock band che sono riuscite e riescono a rimanere sulla cresta dell’onda nonostante abbiano a curriculum 44 anni di carriera…e tutto questo lo devono sì alla loro vena artistica, ma adattata e adattabile al cambiamento.
Prendi per esempio U2. Chiamiamoli “come si deve”: YOU TOO (anche voi) e non U-DUE. Iniziarono nel 1976, proprio sull’onda emotiva dei concerti di personaggi come i Ramones ed in un solo decennio, gli anni ’80, sono diventati il gruppo più importante nel panorama mondiale del rock.
Gli U2 erano già una band ancor prima di essere in grado di suonare
[Bono Vox]
Nel 1980 esordiscono con BOY, cavalcando l’ondata della new wave e del post punk, con I will follow e le loro tensioni di adolescenti della periferia dublinese, per arrivare sulla vetta del mondo nel 1987 con JOSHUA TREE. Sì avete letto bene: l’album che da solo contiene Where The streets have no name, With or without you, I still haven’t found what I’m looking for e una scaletta che da sola è una compilation di grandi hits.
In mezzo un decennio a colpi di collaborazioni con Brian Eno, brani che hanno con coraggio parlato di Martin Luther King e delle guerriglie civili irlandesi, consacrandosi con una performance che solo i Queen riuscirono ad oscurare nel Live Aid.
Conquistarono la copertina di Time Magazine, come solo The Beatles e The Who erano riusciti a fare, oltre 5 milioni di dischi venduti nel mondo ed un filotto di sold out nel loro tour mondiale The Joshua Tree Tour.
Quando sei a quelle altitudini l’aria è rarefatta ed il rischio di avere la mente annebbiata dal successo è dietro l’angolo.
I quattro piccoli ragazzi irlandesi avevano di diritto preso lo scettro di rockstar e non avevano nemmeno 30 anni.
All’album del decennio seguì Rattle & Hum che raccontò, sia con note che con pellicola cinematografica, il loro tour americano, con tanto di dediche e devozione a Bob Dylan, Jimi Hendrix e Billie Holiday. I dischi di platino, il successo e l’americanizzazione li avevano allontanati dalla tanto amata quanto odiata periferia di Dublino e dalla loro identità stessa.
Penso che la cosa più importante della musica sia il senso di fuga
[Thom Yorke]
Bono Vox e gli amici di una vita The Edge, Larry Mullen Jr e Adam Clayton avrebbero potuto essere la cover di sé stessi per il resto della loro vita facendo soldi a palate, ma l’anima rock non la puoi accendere o spegnere a tuo piacimento e loro erano LE rockstar di quegli anni, nessuno sapeva cosa avrebbero tirato fuori dal cilindro.
Si rifugiarono a fine degli anni ’80 in una Berlino in pieno fermento tra la libertà della caduta di Berlino e l’incertezza del domani.
Dovevano sentire dentro di loro cosa li aveva portati fin lì e dove sarebbe andati da quel giorno in poi.
Un dilemma non da poco, tanto che la loro gloriosa galoppata era in procinto di arrestarsi.
Tante, troppe volte la fama ha inghiottito talenti del rock, ma quegli irlandesi avevano la pelle dura: non certo dei santi (scagli la prima pietra chi è senza peccato!), ma persone con sani principi. Come dichiarato da Bono “ai tempi di Berlino non avevamo idea di cosa saremmo voluti diventare, ma eravamo sicuri di ciò che non volevamo essere”.
Fu con questo atteggiamento che successe l’imponderabile: nel tempio degli Hansas Studios di Berlino, dove avevano già registrato mostri sacri come Lou Reed, David Bowie ed Iggy Pop, a The Edge venne fuori il giro di accordi della vita.
Quella sequenza di note erano il primo gemito di una neonata One (secondo MTV la miglior canzone degli anni ’90 e trentaseiesima migliore canzone del mondo secondo la classifica di Rolling Stone) e dell’album Acthung Baby, che ha sconvolto radicalmente le logiche musicali degli U2 e dell’intero mondo del rock.
L’album, anch’esso in posizione altissima nella classifica dei migliori album di tutti i tempi secondo Rolling Stone, uscì il 18 novembre del 1991 e 6 giorni dopo un’altra leggenda del rock salutò il mondo, Freddy Mercury: dopo il Live Aid, in cui scettro e corona se li portò a casa come il calciatore con il pallone quando segna una tripletta, fu come un passaggio di testimone tra miti per continuare a dar vita ed onorare il rock.
Se devi fare una cosa, falla con stile. [Freddy Mercury]
Elettronica e distorsioni miscelate con le melodie e le chitarre di un rock più classico andarono a mettere il segno in una generazione di musicisti che di lì a breve furono ispirati a dar seguito ad una nuova lettura del genere: dai Radiohead ai Muse, dai Placebo ai Coldplay.
Questo è solo un pezzo della storia di quattro semplici ragazzi che erano partiti con scarse doti tecniche nella musica, ma con tanta passione e gesta epiche hanno fatto della lettura dei tempi che cambiavano e del cambiamento stesso il loro status, marcando un segno indelebile nella storia del rock che tutt’oggi stanno scrivendo.
Gli U2 sono la dimostrazione che cambiare è possibile per tutti, anche quando tutto sembra perso o anche quando pensi di aver conquistato tutto. Viviamo in un mondo dove cambiare certi atteggiamenti nei confronti di noi stessi, degli altri e dell’ambiente è una necessità se vogliamo dare alle future generazioni una cultura di amore e rispetto reciproco.
Basta mettersi alla prova e avventurarsi where the streets have no name.
Io sono STEO e questa è la mia Storia del Rock. Se vi è piaciuto l’articolo regalate ai vostri amici il mio libro.
Lasciatemi i vostri feedback, ditemi chi sono stati i vostri miti del rock e chissà potrete trovarli nel prossimo volume. Ed ora vi lascio come di consueto tre brani che vi faranno conoscere meglio gli U2 e il loro camaleontismo.
Non sono gli anni della tua vita che contano, ma la vita nei tuoi anni.
[Abraham Lincoln]
Gli anni ’60. I rivoluzionari anni ’60. I babyboomers sono cresciuti, così come le loro consapevolezze ed i loro capelli sempre più lunghi. La Società, la cultura e la musica in quegli anni andavano spediti verso una nuova identità sotto il nome dell’amore e dell’unione. Ci farebbe bene una buona dose di quei valori oggi che siamo rintanati nel nostro Facebook (ndr).
Un’identità caratterizzata dalla rottura dello status quo, quello status forgiato da una società conservatrice e bacchettona, dalla sua politica della guerra, da una cultura antisemita. Non è un caso che il rock sia stato la colonna sonora per eccellenza di quel periodo. Non c’erano più solo Chuck Berry, Elvis Presley e Little Richard: una nuova generazione stava facendo passi da gigante ed ogni orma lasciata è rimasta tutt’oggi impressa nel pianeta della musica e della società civile.
Alcuni artisti hanno un modo di vivere ed un modo di fare arte, per me ne esiste uno solo.
[Janis Joplin]
Difficile, per non dire impossibile, eleggere il porta bandiera del rock targato 60’s: se parlassi dei The Beatles farei un torto ai The Rolling Stones. Così come potrei scrivere dell’immensa Janis Joplin, di Syd Barret e dei primi Pink Floyd. E ancora Jimi Hendrix, The Who, Santana, Joe Cocker…la lista di mostri sacri è veramente senza fine. Ma i The Doors con Jim Morrison avevano qualcosa che gli altri non avevano.
James Douglas Morrison, con il suo background di colto poeta, esperto cinematografo, di bambino speciale (racconta che da piccolo, vedendo dei nativi americani morti sull’asfalto per un incidente, ricevette lo spirito dello sciamano), insieme alla sua allucinata vita priva di limiti, aveva dato avvio ad un’espressione ribelle e rivoluzionaria, tanto da spaventare e inimicarsi le Autorità ed addirittura la politica. In soltanto 5 anni è stato capace di mettere il suo volto tra gli Dei del rock e tutt’oggi la sua tomba a Père Lachaise è venerata da migliaia di fan. I suoi concerti erano rituali sciamani e psichedelici e lui, come lo definì il compagno di musica Ray Manzarek, sul palco era la reincarnazione del Dio greco Dioniso. La sua figura è tutt’oggi così pesante che si è scomodato anche un certo Oliver Stone per portare la sua vita in pellicola, non un regista qualsiasi.
Quando le porte della percezione saranno purificate, all’uomo apparirà come realmente è: infinito.
[William Blake]
Il giovanissimo Jim lasciò casa e famiglia per mettere tenda a Venice Beach dove studiava cinema. Erano anni di forte emancipazione in cui l’uso di droghe, specialmente allucinogene, erano all’ordine del giorno: si pensava che aiutassero ad aprire le porte della percezione, come del resto aveva intitolato Huxley il suo libro. Jim era in prima linea in questa sperimentazione e furono proprio “quelle porte” a dare il nome al suo gruppo formato con l’amico di studi Ray Manzarek ed insieme a John Densmore e Robby Krieger. Negli anni ’60 non si pubblicavano i propri esperimenti artistici su YouTube e nemmeno si misurava la propria celebrità a suon di like e migliaia di follower. Così come per la quasi totalità degli artisti di quei tempi, The Doors cominciarono a suonare in piccoli e fumosi locali dove il pubblico poteva essere composto da 20 o 30 corpi danzanti. La voce dell’esistenza di un gruppo pseudo intellettuale che suonava rock, blues e interessanti contaminazioni jazz si sparse rapidamente e, in men che non si dica, si trovarono sul palco del mitico locale Whisky a Go Go su Sunset Boulevard della West Hollywood, a fianco di personaggi del calibro di Frank Zappa e Van Morrison. Ipnotizzarono il pubblico il cui corpo cominciò a muoversi sinuosamente mosso come chioma al vento (novità rispetto alle danze impostate degli anni precedenti). Sarebbe stato un successo se l’organizzatore, un giorno del 1966, non fosse andato in bestia di fronte ai versi della canzone The End. Erano troppo: riferite al complesso di Edipo in versione freudiana, ma che tanto sapevano di incesto, furono il motivo per cui prese a calci buttandoli fuori. Poco male visto che, grazie a quell’esibizione, furono notati dalla Elektra Records che gli offrì un contratto ed in sei giorni registrarono il primo loro album omonimo. Era il 4 gennaio 1967 ed il Re Lucertola, uno dei suoi tanti soprannomi, si stava per impossessare dell’attenzione mediatica e del pubblico statunitense prima e del mondo poi.
Non vivere con la paura di morire, ma muori con la gioia di aver vissuto.
[Jim Morrison]
Jim Morrison aveva un “piccolo” problema, non sapeva stare alle regole. Già con il primo album finirono all’Ed Sullivan Show, un’istituzione per quei tempi e l’occasione per avere l’attenzione nazionale in TV. C’erano già stati Elvis Presley, The Beatles e The Rolling Stone. Mick Jagger e compagni dovettero accontentare Ed cambiando una parola nel testo Let’s spend the night togheter per farlo risultare più decente. Quella “decenza” che era la massima rappresentazione del puritanesimo. Il burbero Sullivan, ci era riuscito con Jagger, ma ci aveva già provato con Elvis ed il suo movimento pelvico, andandogli male: così come con Jim e soci. in Light my fire avrebbero dovuto cambiare la parola “higher” nella frase Girl, we couldn’t get much higher. La parola scelta dai produttori del programma TV era “better”. Questo perché il verso sotto accusa ammiccava all’uso di droghe e non potevano andare in diretta nazionale con un messaggio del genere. Forse non avrebbero potuto in tanti, ma non Mr. Morrison che, in barba al tentativo di “restaurazione culturale” della vecchia guardia, non fece alcuna variazione al testo facendo imbestialire il conduttore televisivo. Non fu il solo caso di ribellione e sfida alle Autorità: nei loro 200 concerti The Doors erano soliti alle provocazioni, quando del pubblico, quando delle forze dell’ordine. Provocazioni che gli costarono care come nel Live al New Haven nel 1968 in cui attaccò verbalmente la polizia, dopo che aveva avuto un diverbio con uno di loro nel backstage interrompendo il suo momento di intimità con una ragazza. Ci fu una vera sommossa e ancora nessuno sapeva che, tra il pubblico in preda al delirio, c’era un certo James Ostenberg che di lì a poco sarebbe diventato Iggy Pop formando i The Stooges e ispirandosi proprio alla sua icona Jim.
Questi giovanotti conoscono alla perfezione gli spartiti, ma non sanno neppure cosa significhi vomitare
[Iggy Pop]
Questo è stato Jim Morrison nel suo breve passaggio sulla Terra: un’icona immortale. Vuoi per l’alcol, per le droghe o per la sua personalità eccentrica era come se si stesse rapidamente dissolvendo. Mentre la lancetta del tempo scorreva lui rapidamente lasciava la polvere di sé disperdersi nell’aria, diventando presto un’aurea che avrebbe raggiunto il mondo per l’eternità. Tormentato dal peso della celebrità e dei suoi demoni la stella di Jim cominciò ad affievolire la sua luce ed il processo, seguito all’ennesima provocazione al concerto di Miami (ancora oggi non si hanno prove che veramente lui aveva mostrato gli attributi come secondo il capo d’accusa), fu la condanna per colui che si dichiarò vittima del puritanesimo, proprio come uno dei suoi poeti preferiti, Oscar Wilde. Jim Morrison ed The Doors erano considerati così “socialmente pericolosi” che non furono nemmeno invitati al celeberrimo Festival di Woodstock (sacrilegio!).
Nessuno ha mai progettato di essere.
[Jim Morrison]
Preso dai problemi giudiziari e da una forma fisica in fase degenerativa, lasciò The Doors con l’ultimo album L.A. Woman, uscito poi nell’aprile del 1971. Album che contiene l’epica Riders on the Storm, in cui i tuoni ed il suono della pioggia sembravano presagire un futuro nefasto. Pochi mesi dopo, durante la sua permanenza a Parigi, il Dio del rock raggiunse gli altri Dei sul monte Olimpo per guardarci divertito da lassù. Ha raggiunto Robert Johnson, Brian Jones, Janies Joplin e Jimi Hendrix; avevano tutti soltanto 27 anni e con i successivi Kurt Cobain ed Amy Winehouse, oggi formano quel mazzo di fiori sfioriti troppo precocemente a causa delle loro esagerazioni e follie: il Club 27. Della sua presenza terrena resta la grandezza dei suoi testi, della sua musica e della sua rappresentatività della generazione di Babyboomers che con i propri ideali ha cambiato i connotati al mondo. Mi piace ricordarlo non per le sue follie, ma per ciò che ha rappresentato e rappresenta tutt’ora. Di lui ci resta la forza sovrannaturale di cui è dotato l’uomo comune come noi, quella forza che può farci determinare il cambiamento ed esserne voce in poco tempo. Lui ci è riuscito in una manciata di anni. Tutto ciò fa di Jim Morrison, il Poeta maledetto, una delle più grandi leggende del rock.
This is the end, my only friend…the end
[Jim Morrison]
Io sono Steo e questa è la mia Storia del Rock illustrata da Filippo Novelli su DETTI E FUMETTI.
Come di consueto al termine della storia vi consiglio l’ascolto di tre brani:
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