Cari amici di DETTI E FUMETTI, fervono i preparativi della mostra per i 15 anni dalla nascita del nostro giornale. La mostra UNA INTERVISTA, UN RITRATTO come dice il nome, conterra’ tutti i ritratti fatti alle artiste/i che abbiamo intervistato negli ultimi 15 anni.
Stay tuned per maggiori dettagli
(Filippo Novelli per DETTI E FUMETTI SEZIONE ARTE -ARTICOLO DEL 27 LUGLIO 2023)
Care Lettrici e Lettori di Detti e Fumetti, oggi intervisterò Gabriele Abis e Stella Falchi una coppia sia sulla scena che nella realtà di giovani e dinamici attori comici che hanno inventato e lanciato su TikTok: Casa Abis. In questi brevi video ci mostrano una coppia sposata alle prese con la vita di tutti i giorni.
Se fate click sul disegno potete vedere il live painting
All’apparenza non sembra nulla di particolare, invece Gabriele e Stella hanno trasformato questi sketch in qualcosa di innovativo, come ad esempio il modo di fissare il vuoto senza sbattere le ciglia da parte di Gabriele mentre Stella gli elenca in modo compulsivo-ossessivo, tutte le regole di comportamento dell’uomo perfetto lette su DonnaPlus. Di seguito le loro Biografie.
Stella Falchi è nata a Roma il 21/03/1991. Amante della recitazione fin dalla tenera età si cimenta tra le quattro mura domestiche in scenette divertenti o imitazioni delle grandi attrici della commedia italiana. Dopo i vent’anni, inizia finalmente ad approcciarsi in modo professionale alla recitazione, frequentando numerosi stage e seminari d’arte drammatica e frequentando per 7 anni una scuola di recitazione. Iniziano per lei le prime esperienze come attrice, passando da Ionesco a Shakespeare, Brecht, Goldoni, Williams e altri autori della sceneggiatura teatrale. Inizia a coltivare anche la passione per la scrittura teatrale, cimentandosi nella stesura di varie commedie e la riscrittura di opere letterarie e drammaturgiche, poi messe in scena. All’età di 30 anni diventa attrice e autrice con Gabriele Abis del duo comico CASA ABIS, entrando a far parte dell’agenzia VERA di Paolo Ruffini e portando in scena dal 2023 la tournée con lo spettacolo “CASA ABIS” in tutta Italia e vantando un seguito di più di un milione di followers totali nelle varie piattaforme social.
Gabriele Abis è nato a Roma il 27/10/1990. La sua passione è sempre stata a senso unico, la recitazione.Frequenta un laboratorio di recitazione organizzato dalla scuola e capisce di non voler fare altro nella vita. Durante l’adolescenza frequenta corsi e laboratori e dopo essersi diplomato decide di entrare all’accademia d’arte drammatica. Frequenta il primo anno presso la scuola di recitazione Fondamenta e l’anno dopo viene ammesso all’accademia nazionale d’arte drammatica Silvio d’Amico dove si diploma nel 2014. Parallelamente frequenta corsi di critica cinematografica e scrittura cinematografica. Sviluppa una passione per la regia teatrale e per l’insegnamento che lo portano a scrivere e dirigere, nonché a recitare, diverse commedie e opere nell’arco di pochi anni. Nel 2021 insieme a Stella Falchi, fonda il duo comico CASA ABIS. Insieme a Stella è autore e attore degli sketch divenuti popolari nel web con più di un milione di followers e con più di 30 milioni di like, aprendo così la strada alla tournée dello spettacolo “CASA ABIS” in tutta Italia. Anche lui ormai da un anno fa parte della scuderia dei comici di Paolo Ruffini.
W. Quando si è formata, dal punto di vista artistico, la coppia Gabriele Abis e Stella Falchi di Casa Abis?
Inizialmente ci siamo uniti grazie ad una produzione teatrale messa in scena nel 2016 dove Gabriele era produttore e regista e Stella curatrice della parte di movimento scenico, uno spettacolo creato in occasione del triste evento del terremoto ad Accumuli e Amatrice, dove insieme siamo riusciti a raccogliere dei fondi da mandare in donazione ai terremotati. Da quel momento la nostra vita artistica non si è più divisa e siamo diventati anche coppia nella vita, continuando a portare in scena diverse opere teatrali autoprodotte. Casa Abis a livello social nasce nel settembre 2021.
W. Chi dei due ha l’intuizione giusta e chi la mette in pratica?
Ci definiamo un unica mente pensante e un unico motore. Solitamente Gabriele la fonte creativa e Stella l’esecutrice, ma spesso ci scambiamo i ruoli, più che altro confrontiamo molto le nostre idee che poi unite creano il risultato finale che volevamo.
W. Che senso ha recitare in una società in continua evoluzione?
Questa società ha ritmi serratissimi, il pubblico ha sempre meno tempo e meno capacità di concentrazione e le informazioni e l’intrattenimento si sta adeguando a questa “velocità”. Per questa ragione che ora un contenuto di 90 secondi comincia ad essere “un pò lungo”, o uno sketch di oggi è completamente diverso da quello che poteva essere prima dell’avvento dei social, più nello specifico i REEL di Instagram e i TIK TOK. La società si sta allontanando da quella che può essere la classica recitazione teatrale. Il nostro senso è quello di cercare come adeguarsi a questo cambiamento, senza snaturare o desacralizzare l’arte e riuscire a portare il nostro pubblico a teatro e magari in un prossimo futuro al cinema. Questo è molto stimolante. Il nostro lavoro non può fermarsi ad un traguardo, soprattutto se il traguardo stesso è in continua trasformazione.
W. Chi ha la meglio in un diverbio dal punto di vista teatrale?
Gabriele. Perché è il regista. Ma Stella da brava attrice alla fine fa quello che le pare.
W. Qual è la prima regola che insegnate ai vostri allievi?
L’ascolto e il respiro. La cosa più importante per l’attore è l’ascolto e questo non si apprende con tecniche specifiche ma è una scelta coraggiosa da prendere. Avviene in un momento specifico. Come un’illuminazione che ci costringe a metterci a nudo perché solo così si potrà essere autentici. Apre le porte a quello che volevamo sentire ma anche a quello che non volevamo sentire a quello che sapevamo di noi e quello che era nascosto nel nostro più profondo. L’attore lavora con la propria anima e se c’è un tappo sarà sempre non autentico. Il respiro sarà il vento dell’anima che farà vibrare la nostra voce e ci permetterà di parlare in maniera autentica e vera.
W. I vostri sogni nel cassetto?
Sarebbe molto bello riuscire a riportare Casa Abis in un film o una sitcom, ma i sogni sono sempre tanti e quando si comincia a sognare non si smette più, alcuni dei nostri sogni si sono già avverati, come quello di portare il sorriso a tanti, anche a chi sicuramente è meno fortunato e vive un momento di difficoltà o tristezza, altri sogni si avvereranno presto… ma non possiamo dire di più.
W. Prima di salutarci vogliamo sapere quando sarà il vostro prossimo spettacolo!
Saremo l’8 Luglio al Teatro Studio 8 di Nettuno alle ore 21! Non vediamo l’ora. Invitiamo tutti a non perdersi questo spettacolo perché vi promettiamo che passerete una serata leggera e divertente.
W. Bene, grazie anche a nome delle Lettrici e Lettori di Detti e Fumetti per questa interessante chiacchierata
Grazie a voi, è stato un piacere poter parlare di Stella e Gabriele anche al di fuori dello schermo.
[DARIO SANTARSIERO per DETTI E FUMETTI -sezione MEDIA – Articolo del 7 luglio 2023]
Stavo leggendo uno scritto sulle stazioni Nagayama e presi quella del cerchio, prima stazione per diventare unità perché il primo requisito di una orchestra deve essere questo: l’unione tra tutti i componenti della orchestra.
Poi iniziai a cercare l’ispirazione nella botanica perché volevo che il logo ricordasse un germoglio, un fiore a rappresentare la potenza del nuovo che nasce. Scelsi il cardo. Narra la leggenda che gli scozzesi lo presero come loro simbolo poiché questo fiore li salvò. Una notte mentre erano accampati alle porte del nemico e stavano dormendo, il nemico tentò di sorprenderlo nel sonno.Tuttavia avvicinandosi alle tende uno dei soldati calpesto’ un cardo e lanciò un urlo di dolore. Gli scozzesi si svegliarono e poterono difendersi fino a vincere il nemico. Da quel giorno il cardo su sui loro vessilli come segno di fortuna.
Da lì alle scritte disegnate dalle scie degli strumenti il passo fu breve.
Fino ad arrivare alla attuale semplificazione dei tratti.
Questa è la genesi del nostro logo, il logo della Pursue Respighi Orchestra.
(Filippo Novelli per DETTI E FUMETTI SEZIONE ARTE ARTICOLO DEL 28.06.23)
Cecilia Canziani è una curatrice indipendente e docente presso l’Accademia di Belle Arti de L’Aquila. E’ co-fondatrice insieme a Ilaria Gianni del centro di ricerca sull’arte contemporanea IUNO e con Angelika Burtsher, Agnese Canziani e Daniele Lupo del progetto editoriale di libri d’artista per l’infanzia Les Cerises. Tra i progetti indipendenti recenti: 2023: Roma, a portrait, Palazzo delle Esposizioni, Roma; Una felice corsa, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Bologna; 2022: Sara Basta. La prima madre, con C. Meli, Fondazione Pastificio Cerere, Roma; In metamorfosi, Marta Roberti. sZo Roma; 2021: Io dico io, Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, con Lara Conte e Paola Ugolini (2021), Anastasia Potemkina, MAXXI Aquila; La giusta misura, con Chiara Camoni, (2018- on going. Palazzo Bentivoglio, Bologna; Murate Art District Firenze; Società delle api, France, MOSTYN, UK; GAM, Torino); 2019: Autoritratto. Bettina Buck, Chiara Camoni (Murate Art District, Firenze; Shape, colour, taste, sound and smell. Adelaide Cioni /Guy Mees (p420, Bologna). Collabora regolarmente con Flash Art, suoi testi compaiono in cataloghi e monografie.
[Dario SAntarsiero alias WillY per DETTI E FUMETTI – Sezione ARTE – articolo del 24.06.2023]
Cari lettori e lettrici di Detti e Fumetti ho avuto il piacere di incontrare il Direttore della famosa Sartoria teatrale Piero Farani, Luigi Piccolo e non mi sono lasciato sfuggire l’occasione per intervistarlo.
Allora Luigi, sei nato a Udine, hai studiato lettere a Padova con l’intenzione di diventare un restauratore, ma grazie all’amicizia con il regista Giancarlo Cobelli, nel 1980 sei stato contattato da Paolo Tommasi che all’epoca era il suo scenografo e costumista. Dopo due anni, come assistente ai costumi, sempre grazie a Cobelli hai incontrato Piero Farani che ti ha proposto di aiutarlo nella conduzione della storica sartoria dove sono stati realizzati i costumi per gran parte dei capolavori del cinema italiano degli anni 60 – 70. Nato dalla collaborazione con l’amico Danilo Donati, all’epoca astro nascente, poi costumista di Pasolini, Fellini e Zeffirelli, due premi Oscar e innumerevoli altri premi. Dal 1997, dopo la scomparsa di Farani, hai preso in mano le redini e la conduzione della sartoria; senza rinnegare niente del passato, le sperimentazioni che tanto piacevano a Farani, la sartoria si è orientata nella ricostruzione storica del costume e, tra i clienti più affezionati degli ultimi anni possiamo citare Colleen Atwood, la costumista di Tim Burton, che ha vinto quattro di Oscar. Da cinque anni insegni storia del cinema allo IED di Roma.
W: Com’è stato, da assistente ai costumi, uscire da una realtà come quella Veneta e approdare in quella di Roma?
Un salto nel buio, è stata l’incoscienza dei 20 anni a guidarmi; partire per Roma, dove non ero mai stato e dove non conoscevo nessuno, se ci ripenso oggi mi sembra quasi un sogno.
W: Poi l’incontro con Piero Farani, ce ne vuoi parlare?
Cobelli, il mio pigmaglione, abitava nello stesso palazzo dove viveva Farani, sapendo che cercava un assistente mi propose il fatale incontro. Incredibile ma vero, all’epoca ancora contavano i rapporti umani.
W: Cosa provi quando un tuo abito è indossato sul set da un attore famoso?
Emozione, amo talmente il mio lavoro che ancora mi emoziono, come l’immensa Tilda Swinton che si è commossa indossando la giacca di Totò di Uccellacci e uccellini.
W: Ultimamente la sartoria teatrale in Italia è in crisi perché?
Perché lo stato non aiuta in nessun modo gli artigiani, anzi. Perché è sempre piu difficile trovare manodopera valida, di improvvisazioni se ne trovano in gran quantità, ma nonservono. Perché non si producono film in costume, per il contemporaneo non c’è bisogno della sartoria. E dire che in Francia lavoriamo a 4/5 produzioni in costume all’anno, se non di piu.
W: In un mondo globalizzato la sartoria Farani che ruolo riveste?
Il ruolo di un piccolo artigiano che continua imperterrito per la sua strada, riconosciuto e stimato nel mondo; lavoriamo molto in Francia, Inghilterra, recentemente a Dubai, Giappone e via dicendo. Diciamo che Internet ha facilitato i contatti e ridotto le distanze.
W: Qual è la prima cosa che insegni ai tuoi allievi?
La curiosità, bisogna essere curiosi nella vita, altrimenti resti relegato nel tuo guscio. Purtroppo i giovani di oggi, rispetto alla mia generazione, hanno tutte le possibilità del mondo, ma non sono in grado di usufruirne, non sono educati alla ricerca.
W: Quando un film finisce gli abiti di scena che fine fanno?
Tornano a noi, vanno nei famosi magazzini, come quelli dei film di Pasolini esposti a Palazzo, solitamente abitano in un magazzino, sono conservati gelosamente.
W: Il tuo sogno nel cassetto?
Creare un museo con tutti gli abiti autentici che ho raccolto in quasi 45 anni di attività, oltre 5.000 pezzi che vanno dalla metà del 1700 all’Alta moda degli anni 70.
W: Caro Luigi, grazie anche a nome delle lettrici e lettori di Detti e fumetti, per questa interessante chiacchierata.
Grazie a voi,
[DARIO SANTARSIERO per DETTI E FUMETTI – sezione ARTE – articolo del 27 febbraio 2023]
Cari lettori di Detti e Fumetti, non potevo perdere un importante evento che si svolge al Mattatoio di Testaccio padiglione 9b: Spazio Griot. Ho intervistato per voi Johanne Affricot, curatrice e produttrice culturale indipendente romana, di discendenza haitiana e ghanese, fondatrice nel febbraio 2015 del magazine culturale “GRIOTmag” blog italiano estesasi poi in SPAZIO GRIOT, con il suo collettivo: Celine Angbeletchy (EHUA) e Eric Otieno Sumba, che sono alla continua ricerca di un linguaggio culturale internazionale e locale, che approda nella cultura africana e la sua diaspora, con le sue sfumature artistiche e sonore.
W: A che età hai capito che l’arte avrebbe fatto parte della tua vita?
J: Sai, non saprei dirti con esattezza quando ho capito a che età l’arte avrebbe fatto parte della mia vita. Credo che l’aver fatto discipline artistiche come danza moderna, quando ero bambina, così come teatro, da adolescente, con la grandissima Francesca Maria Romana Coluzzi (scomparsa purtroppo nel 2009), abbia contribuito a maturare il mio interesse verso l’estetica e il linguaggio artistico. Subito dopo la fine dei miei studi universitari, ho iniziato a lavorare per un’organizzazione non governativa; mi occupavo di responsabilità sociale di impresa e relazioni esterne. I progetti che gestivo, o che sviluppavo, erano tutti legati a forme di espressione creativa (cinema, moda, scrittura principalmente). Poi negli anni questa direzione ha assunto una linea più chiara, e in maniera del tutto naturale ho iniziato a lavorare per agenzie creative o associazioni culturali nelle quali, come responsabile di progetto, concepivo sia idee e contenuti, sia dirigevo o coordinavo i progetti. Da Nastro. Say Yes to It, al Teatro Parenti di Milano, al MIT in Town alla Fondazione Auditorium Parco della Musica a Triumphs and Laments, di William Kentrdge, al MAXXI. Tutte attività che ho amato, che si sono depositate nella mia identità, ma a cui mancava qualcosa.
W: Perché lo Spazio Griot?
J: SPAZIO GRIOT perché proprio partendo da varie esperienze lavorative, così come dalla mia esperienza di bambina, prima, donna poi, Nera, cresciuta con l’audiovisivo, la letteratura, la cultura italiana, insomma, non vedevo alcuna rappresentazione di me stessa che fosse reale e presente, nel senso letterale del termine; piuttosto, una narrazione falsata da pregiudizi, stereotipi, da assunzioni, da chiusura. Così, ricca di una forte visione, e di un discreto bagaglio, nel 2015 decido di fondare GRIOTmag. L’idea era ed è quella di colmare la pesante lacuna che c’è nel racconto delle soggettività marginalizzate ed escluse, utilizzando un approccio artistico multidisciplinare, appunto, perché l’arte, nelle sue varie declinazioni, è il linguaggio che sento mi appartenga, probabilmente da sempre. Il focus di GRIOTmag è sempre stato raccontare le comunità artistiche e culturali della diaspora africana e dell’Africa per dirla più semplicemente, delle persone Nere, razzializzate, comprendendo anche altri gruppi, anche se non è un’impresa semplice perché si tratta pur sempre di un progetto indipendente, e portare avanti più istanze culturali e sociali, per quanto siano fortemente interconnesse, è complesso; ma non mi spaventa, bisogna solo strutturarsi meglio e avere un dialogo costante con la comunità, le istituzioni, il settore privato.
W:con che spirito gli artisti afro-italiani affrontano la realtà culturale italiana?
J: È una domanda complessa perché ogni condizione è soggettiva. Bisogna sempre prendere in considerazione che non si parla di un blocco monolitico ma di individualità: come tu sei un individuo e le persone italiane bianche sono individui. Posso dirti, però, che la maggior parte della comunità artistica afro-italiana con cui mi sono relazionata condivide una esperienza comune di alienazione, che assume diverse forme, che deriva da tanti luoghi, cercando e creandosi allo stesso tempo il proprio posto, con tutti gli oneri del caso. Ma c’è anche tanta felicità.
W: Il cinema africano che impatto ha in Italia?
J: Non credo abbia un impatto vero e proprio, anche se sentenziare in questo modo rischia di essere deviante, non avendo dati alla mano. Se parliamo di mainstream, posso dirti però con certezza: zero.
E credo lo veda anche tu; se parliamo di undergound, ci sono stati dei blog che facevano un ottimo lavoro di racconto e archiviazione di cosa viene prodotto nel continente e nella diaspora. Ma sono sempre iniziative indipendenti, non supportate. Poi abbiamo i festival di cinema africano indipendenti: da Roma a Firenze a Verona a Milano, o altre iniziative culturali che al loro interno ospitano l’audiovisivo africano e diasporico africano.
W:Le performance musicali dei giovani quanto sono influenzate dal retaggio culturale africano?
J: Dipende cosa intendi. Se parliamo di musica pop, c’è una onda di giovani sempre più crescente e potente che, partendo dagli UK, dalla Francia, dal Portogallo fino ad arrivare in Italia, sta includendo e diffondendo tutte una serie di sonorità, come l’afrobeats per esempio (con la “S”, perché è diversa dell’aforbeat di FelaKuti, per citarti un nome gigante), che stanno ridefinendo la club culture contemporanea anche nel nostro paese. Se prima l’hip-hop e il rap americani la facevano da padrone, oggi questo genere dirompente ha fatto il suo ingresso, guadagnandosi non pochi apprezzamenti e onori. E mi sembra si sia seduto per restare del tempo.
W: Che ruolo ha il teatro in Africa e come si rapporta qui in Italia?
J: È sempre difficile perimetrare un genere artistico a un continente piuttosto che a singoli paesi. Posso dirti che in Nigeria, in Ghana, in Etiopia ci sono lunghe e antiche tradizioni orali performative, così come letterarie. La difficoltà, qui in Italia, in Europa e così via, sta nello spogliarsi di un approccio o sguardo occidentale a qualsiasi forma artistica che viene dall’Africa—in questo caso. Sicuramente ci sono similitudini, ma anche tante diversità, quindi il gioco che ci farà vincere tutt* sta nel rilassare il nostro giudizio e senso estetico, e farci attraversare da ciò che presenta codici nuovi o molteplici. Poi possono piacere o non piacere, è legittimo, ma questa è un’altra storia. Liliana Mele e Ilenia Caleo il 5 luglio nello spazio esterno tra il padiglione 9a e il padiglione 9b del Mattatoio parleranno proprio di questo, nell’incontro Archivi dispersi e resistenze. Il teatro etiope prima, durante e dopo l’impero di HailéSelassié. Mele, che è italo-etiope ha sviluppato la sua tesi di laurea magistrale proprio su questo, e invito tutt* le/i lettor* di Detti e Fumetti a partecipare a questo incontro culturalmente arricchente e rilevante.
W:Cosa consiglieresti ad una giovane afro-italiana che ha deciso di intraprendere il duro cammino dell’arte?
J: Le consiglierei di ascoltarsi, di trovare o fare comunità; di connettersi con chi ha intrapreso questo percorso da tempo. Questo le consiglierei.
W:Qual è il tuo sogno nel cassetto?
J: Ne ho tanti, sai? Al momento, parlando di sogni concreti, vorrei avere un nostro spazio fisico dove poter sperimentare, esplorare e discutere. Vorrei che SPAZIO GRIOT diventasse un tempo lungo più strutturato, vorrei che fosse sostenuto e non fosse trattato come un trend o un’anomalia del sistema.
W: bene Johanne ti ringrazio anche a nome dei lettori di Detti e Fumetti.
J: Grazie per lo Spazio, Willy. A Presto.
Cari amici, vi ricordo le date di Spazio Griot in essere al Mattatoio padiglione 9b dal 30 luglio al 4 settembre 2022.
Di seguito il link su cui cliccare per avere tutte informazioni
Cari amici, sono andato a visitare la mostra di Clément Cogitore al ex Mattatoio di Roma e ho pensato di condividere con voi questa bella e interessante esperienza culturale.
La mostra è promossa da Roma Culture e Azienda Speciale Palaexpo con la collaborazione di Accademia di Francia a Roma – Villa Medici. Si ringrazia Institut Français
Organizzazione Azienda Speciale Palaexpo
Clément Cogitore (Colmar, 1983) è un artista e cineasta francese che indaga le frontiere tra cinema e arte contemporanea, utilizzando film, video, installazioni e fotografie. L’esposizione Notturni, presenta per la prima volta in Italia, una selezione delle più importanti opere video, nelle quali l’artista esplora le contraddizioni e le ambiguità delle immagini contemporanee tra verità e falsificazione, testimonianza diretta e ready-made di immagini filmiche, mettendo in discussione il rapporto con il reale e con la storia.
Le opere di Cogitore sono costituite da elementi visivi eterogenei, da forme narrative non lineari che oscillano tra documentario e finzione, senza mai configurarsi in un’unica forma di rappresentazione, nelle quali la stessa finzione diventa una sorta di “teatro” della realtà.
La notte qui evoca ciò che è sconosciuto o irrazionale, come il sogno, le tenebre, l’aurora boreale, le atmosfere chiaroscurali tratteggiate da un’illuminazione artificiale, ed è metafora delle labili frontiere della rappresentazione.
TAHRIR 2012 video 16.9, color 7min 50s
L’opera trova la sua origine nella riutilizzazione di un filmato televisivo che rappresenta una delle manifestazioni di protesta del popolo egiziano contro il regime di Mubarak. Nel corso della seconda rivoluzione del 2011 presso la piazza Tahrir del Cairo
Il montaggio stroboscopico delle immagini crea uno spazio irreale, un campo di battaglia dove manifestanti e forze dell’ordine sembrano confondersi in preda alla violenza. L’artista conferisce così una nuova realtà alle immagini e sfidando ogni limite di percezione. Cerca di esplorare le analogie tra la psiche umana e lo scorrere della immagini in movimento
Clément Cogitore, The Resonant Interval, 2016 video, HD 169, color, 22min 37s.
The Resonant Interval trae spunto dalle leggende e dalle superstizioni dei popoli indigeni del circolo polare artico, riguardanti la presunta percezione di suoni emessi dall’aurora boreale e la comparsa di un misterioso oggetto luminoso in Alaska.
Video in mostra:
Clément Cogitore – Les Indes Galantes
Clément Cogitore – Le discours des vanités au XVII° siècle
Mattatoio Piazza Orazio Giustiniani 4-Roma
Orario: dal martedì alla domenica
Dalle 11.00 alle 20.00 lunedì chiuso
Biglietto: intero € 6.00; intero residenti a Roma € 5.00 ridotto € 5.00
Ridotto residenti a Roma e Universitari degli Atenei romani € 4.00
L’ingresso alla mostra è sottoposto alla regolamentazione COVID 19 in vigore
L’allestimento della mostra sulla guerra di questi giorni alla Galleria Nazione di Arte Moderna merita senz’altro una visita.
Nella prima sala ci accolgono le foto di Gohar Dashti (2008) che ritraggono scene familiari all’interno di un incredibile scenario di guerra.
Ad attenderci nella sala successiva dei mastini in ferro che si sbranano l’uno con l’altro a testimoniare la bestialità della guerra.
La crudeltà dell’uomo che crocefigge un altro uomo.
Guttuso
Seguono una serie di rappresentazioni delle guerre in Italia e nel mondo.
Dalle guerre di indipendenza in cui si rappresenta e si sbatte in faccia dello spettatore la morte.
Fattori
alle guerre coloniali con tutta la loro ferocia dove un esercito armato fino ai denti fa strage degli indigeni armati solo di lance e spade.
La seconda guerra mondiale sublimata nelle installazioni di Alberto Burri, medico chirurgo divenuto pittore durante la prigionia (deportato in Texas) che ha sapientemente rappresentato gli orrori della guerra nelle sue opere.
Burri
A proteggere l’Arte dalla violenza e dalla brutalità della guerra, davanti alla porta del museo troverete ad attendervi un branco di leoni di lava nera.
[Filippo Novelli per DETTI E FUMETTI – sezione ARTE – articolo del 14 marzo 2022]
Cari lettori di detti e Fumetti, oggi intervisterò l’artista Cesare Pietroiusti
W. Allora Cesare iniziamo ti introduco ai nostri lettori: laureato in Medicina con una tesi in Clinica Psichiatrica (1979), sei noto per la tua pratica fondata sulla generosità, sui paradossi delle azioni ordinarie e degli scambi economici, tra cui il rifiuto di vendere le proprie opere, e per avere contribuito a creare numerosi gruppi, spazi di ricerca e progetti collettivi.
La frequentazione di Sergio Lombardo, che nella primavera del 1977 aveva aperto il suo studio in un grande appartamento per farlo diventare uno spazio espositivo, è stata determinante nello sviluppare il tuo interesse per l’arte.
Invitato alla XII Quadriennale di Roma del 1996, rinunci ad esporre un’opera individuale per proporre una partecipazione aperta e collettiva ad artisti amici.
Nel 1999 ti è stato assegnato a Bologna il Premio Francesca Alinovi, oggi Premio Alinovi Daolio. Nel 2000 sei stato fra gli iniziatori del progetto Nomads & Residents a New York. Dal 2006 sei membro del Comitato Scientifico e co-curatore del Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Ratti di Como; sei stato inoltre docente allo IUAV di Venezia e MFA Faculty presso LUCAD, Lesley University di Boston. Dal 2015 sei inoltre membro del comitato promotore del Forum dell’Arte Contemporanea italiana, e, dal 2018, presidente del CdA dell’Azienda Speciale PalaExpo di Roma.
W. Perché hai scelto l’arte come tuo stile di vita?
C. E’ più che uno stile, direi che è una “forma di vita”. L’ho scelta perché è quella che più di ogni altra sentivo libera dai condizionamenti delle specializzazioni e delle “capacità” professionali: io, infatti, mi sono tendenzialmente sempre sentito incapace a fare qualsiasi cosa. Col tempo, poi ho capito che l’arte come forma di vita può addirittura valorizzare le incapacità, così come gli errori, gli effetti collaterali, i fallimenti, e far diventare la loro elaborazione un vero e proprio lavoro.
W. Cosa intendi quando affermi che l’arte è provocazione?
C. Più che pro-vocare (chiamare fuori), l’arte con-voca, cioè chiama a un incontro con l’altro, che è un incontro in campo neutro, un campo né mio né tuo, un campo dove non vengono meno soltanto le specializzazioni disciplinari (e disciplinate), ma anche gli abituali modi di pensare, i rapporti fra mezzi e fini, fra cause ed effetti, fra prima e dopo.
W. In questi tempi di globalizzazione l’artista che ruolo svolge?
C. Lo stesso di sempre: è colui/colei che fa mostra e fa un lavoro della libertà di pensiero. Tutti ce l’hanno, la libertà di pensiero, ma per lo più se lo dimenticano (o meglio, nessuno glielo ricorda). Nessuno, tranne l’artista e forse il filosofo (che comunque non la prova sperimentalmente).
W. L’arte a chi appartiene?
C. A chi ha le idee per darle senso, non a chi ha i soldi per comperarla.
W. Sei presidente di una prestigiosa sede come il Palazzo delle Esposizioni di Roma, che responsabilità comporta dal punto di vista divulgativo?
C. Responsabilità grandi, grandi doti di equilibrio ed enormi e costanti rischi di fraintendimento. Poiché i media, quelli che si occupano della divulgazione (strana parola, no?), non sono interessati alla libertà, al pensiero critico, all’emancipazione, ma soltanto a quella fastidiosa caricatura del discorso che è il pettegolezzo, lo scandalo che produce pruriginose forme di vasildilatazione generalizzata per cinque minuti, e poi non lascia nulla.
W. Ora al Palazzo delle Esposizioni c’è una nuova mostra, promossa da Roma Culture, ideata e organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo “Tre Stazioni per Arte-Scienza” ce ne vuoi parlare?
Palazzo delle Esposizioni, Roma
C. E’ un grande progetto che cerca di dimostrare che forza del ragionamento, bellezza estetica, paradossi, storia e incertezze possono convergere e trovarsi in un territorio intermedio fra loro, laddove nuovo senso si costruisce, a sorpresa dei singoli specialisti. Una grande mostra che tutti gli studenti, tutte le persone curiose, o potenzialmente tali – insomma tutti e basta – dovrebbero venire a visitare.
W. Qual è il tuo sogno nel cassetto?
C. Tornare a fare l’artista a tempo pieno…
W. Bene, grazie caro Cesare anche a nome dei lettori di Detti e Fumetti per questa bella chiacchierata.
[DARIO SANTARSIERO per DETTI E FUMETTI – sezione ARTE – articolo del 3 novembre 2021]
La gran parte della fortuna di Chagall è legata alla rappresentazione dell’amore fluttuante nell’aria, quello tra lui e Bella; un amore sospeso che si distacca dal terreno, fuga dalla realtà quotidiana, sublime e ultraterreno.
Chagall-sulla città 1917
Pochi sanno che, con molta probabilità, l’ispirazione della famosa “icona chagalliana” deriva da un’opera molto meno nota ma non meno poetica il dipinto di Paolo e Francesca di Giuseppe Frascheri,
Dante e Virgilio incontrano Paolo e Francesca, olio su tela, 1846, Civica Galleria d’Arte Moderna Savona.
[Filippo Novelli per DETTI E FUMETTI – sezione ARTE – articolo del 2 novembre 2021]
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